I ❤️ minors

I ❤️ minors

Mi piace il basket perché è un gioco di squadra in cui ancora si può credere, e mi piacciono le minors perché son fatte di ragazzi che si sbattono per allenarsi e giocar partite, ritagliando il tempo tra esami universitari e turni al KFC, per il solo piacere di esser lì, lontani mille miglia dalla fama di un LeBron, col cuore di un Melli, la garra di un Pajola e i post-partita che immagino faccia Jokic.

Mi piacciono le minors perché son fatte di allenatori che dopo il lavoro in ufficio moltiplicano quella manciata di ore rimaste per gestire la squadra, inventare schemi, faticare a spiegarli, e trovarsi poi in panca a smadonnare quando nessuno li esegue.

Mi piacciono le minors perché anche se una parte di queste ore sono sottratte allo mia vita, non c’è niente di più bello che veder qualcuno a cui tieni impegnarsi tanto su qualcosa a cui tiene davvero così tanto.

Mi piacciono le minors perché sono fatte di società che spesso raccattano a stento i soldi di una sponsorizzazione, e gli tocca riciclar le maglie per rientrare nel budget e fare i salti mortali per trovar palestre aperte e disponibili, ma resistono.

Mi piacciono le minors perché son fatte di ragazzi che arrivano in campo già con le casse di birra, da bere dopo la partita a prescindere dal risultato.

Mi piacciono le minors perché ci sono due allenatori che hanno comprato delle maglie orribili in Guatemala promettendo di scenderci in panca se avessero raggiunto i play-off, e lo hanno fatto.

Mi piacciono le minors perché a una manciata di ore dalla fine di un campionato in cui ci si è buttati dentro quasi per scherzo per far giocare un gruppo di amici, c’è qualcuno che ha tanto cuore da aver scritto questo:

Ed eccoci qua alla fine di questa stagione, una stagione ricca di emozioni, ricca di risate, di sudore, di urli e di tanta tanta voglia di giocare a basket

Vi ricordate in quanti siamo partiti? Un esercito infinito di giocatori, con allenamenti improponibili in 18 in quel del Cattaneo, dove tirare 10 liberi sembrava un’eternità

E invece guardiamoci ora, una banda di gente mezza rotta e acciaccata, ma che con il cuore viene ogni volta a solcare il campo da basket per l’amore verso lo sport e l’affetto verso la squadra; lo zoccolo duro della DR2 del 5 Pari

Vi sto scrivendo questa lettera per ringraziarvi, prima come squadra e poi come singoli individui per l’annata fantastica che mi avete fatto passare. Questo è stato l’anno sportivo più bello da che ho memoria e non mento, mi avete fatto provare un intruglio di emozioni bellissime, mi avete riempito il cuore di gioia, le gambe di voglia di correre e di sputare i polmoni a terra per voi, ho vissuto dei momenti fantastici, talmente tanti che non riesco a ricordarne neanche uno in particolare, ma so di averli tutti nel cuore dal primo all’ultimo

Ma bando alle ciance, ora tocca a ciascuno di voi ricevere i suoi meritati ringraziamenti

Grazie Ahmed, l’ultimo faraone d’Egitto, per avermi fatto scoprire la canna da zucchero, per i tuoi aneddoti stravaganti ma sempre belli, per avermi fatto compagnia quando rimanevo da solo a tirare liberi come uno scemo. Magari facciamo solo una bella gettata di cemento sulle mani così cominciamo a cartonare un po’ sto pallone senza perderlo ahaha

Grazie Carlo, Re di Sardegna, per tutti i passaggi in auto che abbiamo condiviso, per esserti prestato alle mie battute sui sardi, per tutti gli scambi di opinione sul gioco e sul campo. Giusto due cose: cerchiamo di aggiustare puntualità e presenze e magari facciamoci un bel viaggetto a Lourdes per ridurre tutti gli infortuni

Grazie Ema, il viaggiatore, che anche se non sei qua sei stato un fondamento per la squadra e una parte di lettera spetta anche a te, per la tua capacità di far muovere la squadra come un direttore d’orchestra, per le belle parole che hai speso prima di partire al Pala e soprattutto per averci invitato lì con te. Fai solo attenzione a non uscire di testa quando non segniamo e vedrai che tutto è più semplice

Grazie Spita, il veterano, per i consigli da esperto, per la tua capacità di passare dalla risata alla serietà, per la tua capacità di prenderti la responsabilità in campo in un momento di difficoltà. Giusto una cosa, troviamo da qualche parte 2 ginocchia nuove da montarti così arrivi al top

Grazie J, il lavoratore-giocatore, per tutto il tuo impegno a giostrare lavoro e campo, per la tua voglia di mangiare il canestro ad ogni occasione possibile, per essere stato forse quello con cui più mi sono cartellato giocando. Troviamo una soluzione per gli incastri lavoro-basket e un posto non te lo toglie nessuno

Grazie Dabbe, permettimi dire il timidone, per esserti aperto con noi lungo il corso dell’anno, per la passione che ogni tanto fai trasparire, per la voglia di migliorare sempre e non sbagliare più. Mi raccomando però, non palleggiareeeee

Grazie Dani, il lampo più veloce della luce stessa, per esserci sempre stato, per avermi sempre sostenuto e dato fiducia, per i sonori cinque che ci siamo scambiati, per tutta la voglia di correre che mi instillavi vedendoti giocare mettendoci il cuore, per tutta la pazienza che hai messo nel cercare di insegnarmi a tirare. Continua sempre così, sempre più veloce e sempre più potente

Grazie Vullo, il treno infermabile della 5 Pari, per i tuoi saluti urlati, per essere stato un mio fidato compagno in ogni partita di allenamento, per quelle 2/3 stoppate che ci siamo scambiati a vicenda le rare volte in cui ci sfidavamo. Imparassi a credere in te stesso come facciamo noi e smettessi di essere il tuo stesso peggior nemico posso assicurarti che saresti definitivamente inarrestabile

Grazie Turi, the animal, per tutta la tua passione, per il nostro urlo, per la voglia che si vede fremere nei tuoi occhi ogni volta che solchi un campo, per il tuo tifo sfegatato anche da zoppo. Peccato per l’infortunio che ti ha costretto fuori dal campo, ma che ha fatto risaltare il tuo cuore e la tua voglia di combattere sempre e comunque contro tutto e tutti

Grazie Gianlu, la zoccola della 5 per tutte le squadre in cui giochi, per essere venuto a correre con noi anche distrutto da un altro allenamento, per non esserti arreso alla stanchezza, per aver fatto del sudore la tua stessa pelle, per i racconti in direzione Milano in macchina. Trova la stabilità di una squadra (noi) e impara ad usare 2 mani per i passaggi e vedrai che sarà tutto in discesa

Grazie Pier, Signore dei terroni, per essere venuto alla nostra riscossa quando il play quasi quasi toccava a me farlo, per le tue triple in scioltezza, per il tuo profondo senso di squadra, per averti visto giocare sul dolore a denti stretti dimostrando quanto grande fosse davvero il tuo amore per lo sport e il tuo affetto per questa squadra. Giusto giusto ogni tanto tieni a bada la scimmia che vuole scappare fuori ahaha

Grazie Ste, il nostro Popovich, per aver pazientato tanto con me, per avermi cazziato quando sbagliavo e per avermi complimentato quando azzeccavo qualcosa, per aver visto in me quelle poche potenzialità e forze che c’erano nel mio gioco. Continua a dare alla squadra i tuoi consigli e regala per favore un po’ di quella intelligenza cestistica che tanto ci serve ahaha

Grazie Zoltan, la fiamma sprigionata in panchina, per avermi concesso di giocare per voi, di imparare, di migliorare anche con tutte le mie lacune, per avermi dato fiducia e per avermi spronato ad essere migliore. Il mio consiglio per te è di cominciare a prendere un bell’antiipertensivo profilattico prima delle partite in ottica dei nostri terzi quarti ahaha

Grazie Cava, la farfalla, perché capace di fare una metamorfosi da ballerina a giocatore, per tutta la cazzaggine che ci hai regalato tutto l’anno, per le risate, per aver saputo sollevare il morale anche quando era giù, per la tua capacità di dare subito il tuo meglio agli altri, in generale proprio per la bella persona che sei. Non cambiare, sii sempre così, al massimo cambia un po’ la scelta del tuo tiro preferito ahaha

Grazie Vannak, il generale, per le spallate in post, per le cartellate a quei poveri tabelloni, per i baklava offerti al kebab, per essere stato un mio fratello ad ogni disco possibile e immaginabile, per esserci stato sempre in ogni occasione, per esserti prodigato per esserci sempre per la squadra (vedi Grugliasco). Non bere troppo, non bruciarti in disco e non diventare troppo grosso altrimenti chi cazzo ti tiene più in allenamento ahaha

Grazie Andre, capitano mio capitano, per tutti i consigli in campo e fuori, per esserci stato sempre con la testa capace di tranquillizzare la squadra, per la bellezza di vederti giocare, per i sorrisi che ci hai fatto quando eri veramente soddisfatto, per tutti i grazie che mi hai detto ad ogni saluto, oggi sono finalmente io a dirti nero su bianco GRAZIE

Grazie Dag, guerriero vero, perché è grazie a te se ho potuto conoscere tutti, se ho potuto gioire così tanto in un anno, se ho avuto occasione di migliorarmi a dare il meglio di me, per essere stato d’esempio di cosa significhi vincere con il cuore e con le palle, per aver lottato su ogni pallone, contro ogni giocatore. Mi raccomando, smetti di battere ste cazzo di mani, ma soprattutto non smettere mai di combattere per quel pallone arancione

Ed eccoci alla fine, non manca più nessuno. Ma che cazzo dico dai, lo sappiamo tutti chi manca

L’ultimo, ma per tutto fuorché per importanza, MAX fottutissimo FELLETTI, il cuore vivo e pulsante della DR2, l’uomo che ha reso con le sue azioni, il suo impegno, con le sue ore e con il suo cuore possibile vivere un anno così bello. Colui che ha reso possibile che ciascuno di noi avesse una possibilità di sorridere, una chance di migliorare. L’uomo che ha trasformato una squadra di basket di ragazzi un po’ cazzoni in qualcosa di oltre, che ancora i vocabolari non sanno definire

Non ho neanche abbastanza parole nella testa per descrivere quanto tu ci abbia dato, forse l’espressione che più ci si avvicina è ufficialmente chiamarti San Max Felletti

Ora si che siamo alla fine

Non so più davvero cosa scrivere, vorrei dirvi non so quante altre cose, vorrei ringraziarvi in modi sconosciuti all’uomo, ma non ho le parole per farlo

Avrei voluto potervi dare ancora di più, fare di più, ammazzarmi di più. Avrei voluto essere più utile dentro e fuori dal campo, sarei voluto essere più forte per voi, essere qualcuno che avreste potuto guardare dicendo: la palla è tua, mi fido di te. Mi spiace non esserci riuscito, in verità non è un rimpianto, ma solo un peccato

Vi dico ancora una volta grazie, e soprattutto

WE’RE BLOOD BOUND

Dal vostro

Red

“Il fuoco non si e’ spento” – Bull Brigade


L’ultima alba

L’ultima alba

Alla fine ci siamo, qui e ora, a chiudere definitivamente una porta da cui sono passata per sette anni giusti giusti.
Da lunedì, casa non sarà più questa. Niente più acqua del Naviglio che vedo anche dal letto, niente più fuoco del camino a riscaldare più il cuore che i muri, niente più aria e sole che entrano dalla finestra sul tetto, tramonti ardenti che si specchiano nell’acqua, libri letti sul ballatoio con una birra fresca a fianco, bici per andare al lavoro e alla Canottieri. Di lei mi ero innamorata subito così com’era, come ci si innamora di un uomo. Le cose belle e le magagne, prendere o lasciare, e io mi sono buttata e ho preso tutto, faccio sempre così. E adesso staccarmene fa un certo effetto.

Questa casa ha visto amori finire senza dirselo, e cominciare all’improvviso senza averlo previsto. Mi ha vista cambiare e anche un po’ invecchiare. Mi ha vista rientrare stanca del lavoro, stanca della remata, stanca della giornata e delle scale, ma mai stanca di ciò che mi ha portata qui. C’è chi nasce con l’F205 scritto nel codice fiscale e chi ce l’ha dentro da qualche parte, e lo scopre davvero solo quando si ritrova a dover prendere una decisione importante.

Poco dopo l’arrivo a Milano mi son fatta tatuare sulla coscia sinistra una rosa dei venti legata ad un’ancora. Quando navighi a vela, il vento ti spinge e ti da la direzione, l’ancora ti tiene ormeggiato dove tu decidi di gettarla. L’ho fatto sapendo che a destinazione ci ero arrivata, e sperando che prima o poi sarei riuscita a avere un’ancora pesante abbastanza da poterlo completare con delle coordinate. Quell’ancora ce l’ho da due giorni, sancita dalle scritture di un notaio. E’ vero anche che ne possiedo il 50%, ma tanto mi basta, anzi.

Non era previsto ma è capitata un’opportunità, e mi sono detta Perchè no? Facciamolo. Ero stanca di vivere con lo zaino in spalla, il minimo indispensabile in un cassetto in bagno, testa e piedi in continuo movimento tra due case diverse. Magari è ora di crescere e mettere la testa a posto. Neanche tanto, perché ci vuole un pizzico di incoscienza per impegnarsi per vent’anni e cifre a cinque zeri a cinquantaquatrro anni e spicci.

E dunque da lunedì ci sarà una casa sola. Alla fine, ha vinto la comodità sul romanticismo, i sette piani di acensore sui quattro di scale, il riscaldamento a pavimento sui termosifoni di ghisa, i posti auto di fronte al portone sulla zona pedonale e sul tempo perso a cercar parcheggi non troppo fantasiosi e lontani, il silenzio notturno sul casino dei bar, la vista su Porta Nuova e sul Bosco Verticale invece che sul Naviglio Grande e la Darsena, le tre linee di metro a cinque minuti sulla scarpinata per Porta Genova. Essere in due invece che da sola. E comunque un po’ mi mancherai. Ciao.

“Home Sweet Home/Bitter Sweet Symphony” – Limp Bizkit

When dreams come true /1

When dreams come true /1

Il 20 gennaio del 2015 ho pubblicato nel blog la mia wishlist, l’elenco delle cose che voglio fare prima di diventare troppo decrepita e rincoglionita, e nel tempo l’ho pure rimpinguata. I sogni non finiscono mai, almeno i miei, anche se arrivati a una certa, sarebbe ora di impegnarsi di più a spuntare righe invece che ad aggiungerne.

Quando dunque si è iniziato a parlare delle vacanze di quest’anno, mi sono vista tipo Zio Paperone quando fiuta un affare, solo che i miei occhi, normalmente castani, erano diventati improvvisamente blu. Dei profondissimi buchi blu, come il numero 35 della lista, che è lì da quando ho iniziato ad andare seriamente sott’acqua nel 1998. Ventisei anni sono un bel po’, ma io sono tenace e so aspettare, e alla fine arrivo (quasi) sempre a quello che voglio. Se dipende essenzialmente da me, ça va sans dire.

Guatemala e Belize o Belize e Guatemala? L’ordine non è poi così importante, l’importante è che che in Belize c’è la seconda barriera corallina più grande del mondo, e in mezzo a quella barriera c’è il Great Blue Hole, esplorato per la prima volta da Jacques Cousteau nel ’71. Se si va in Belize, non si può non andare lì. Non posso non andare lì.

Non facevo più immersioni da anni, causa eventi collaterali della mia vita personale più varie ed eventuali che hanno riordinato le priorità, e necessitavo di un refresh. La subacquea è una roba delicata, uno di quegli sport dove non puoi permetterti di star lì a pensare cosa fare, le azioni devono essere naturali ed automatiche, sopra e sotto. Montare l’attrezzatura, controllare la tua bombola e quella del compagno, scendere, compensare, respirare lentamente, mantenere un buon assetto, controllare i parametri, tener d’occhio il compagno, fare attenzione a non sforare la curva e monitorare l’aria, risalire a velocità controllata, sosta di sicurezza, superficie.

Di tutto questo, la sola capacità che temevo di aver perso era l’assetto, che è la caratteristica fondamentale che distingue un buon subacqueo da uno scarso. Il saper restare alla profondità stabilita in maniera composta e con minime variazioni, controllate dal respiro o attraverso GAV per lo stretto indispensabile. La bombola poi è una, più aria si usa per il GAV, meno ce n’è da respirare.

Dunque mi sono messa alla ricerca di un centro SSI a Milano per organizzare la mia rentrée sott’acqua, e da nerd quale sono, ho controllato review, referenze e tutto quello che ho potuto prima di contattare la struttura e andare di persona. Mi ci son trovata subito bene, a pelle, dalla prima volta che sono entrata. Non è un posto per fighetti, l’owner ha all’attivo migliaia di immersioni (una leggenda della subacquea, ma questo l’ho scoperto solo dopo) e conosce il mio vecchio istruttore. Abbiamo parlato un po’ della mia esperienza, di quello che avrei voluto fare e mi ha fatto una proposta che andava oltre i miei programmi. Ci ho pensato giusto un attimo e poi “SI”. Ero entrata per uno Scuba Skills Update di poche ore e un tuffo in mare, e invece un paio di mesi dopo avevo in tasca un brevetto Nitrox EAN40. Nel mezzo sono passate una serie di lezioni sull’utilizzo delle miscele arricchite di ossigeno, appunti, formule, calcoli e proporzioni che mi hanno risvegliato la voglia di imparare.

La teoria l’ho frequentata insieme a due tipi alle prime armi che non potevano essere più diversi: un simpatico brianzolo che in vista della pensione ha deciso di investire tempo e soldi in acque tropicali, attento alle spiegazioni e consapevole della sua (in)esperienza, e un insopportabile sbarbatello che non stava zitto un attimo – datemi il brevetto che io so già tutto e siamo qui a perder tempo. Una di quelle menti eccelse formatesi alla scuola di FacciaLibro, che se mi fosse mai capitato come compagno di immersione in mare, gli avrei chiuso la bombola a 30mt. La pratica l’ho fatta separatamente 1:1 con l’istruttore, e quando in piscina sono tornata a montare l’attrezzatura, i gesti sono arrivati naturali, come se l’avessi riposta la settimana prima.

Poi l’uscita in mare, nell’AMP di Portofino. La registrazione al diving, i pesi – Quanti chili? Quattro dovrebbero bastare, la cintura ho la mia -, la cassa in cui stipare pinne e maschera, monta il GAV e l’octopus sulla bombola prima di caricarla in barca. La mia attrezzatura – ven’tanni sul groppone ma perfettamente conservata e revisionata – si confonde tra le altre, quello che invece mi ha fatto sentire anacronistica è l’unico pezzo nuovo di zecca, una muta umida da 5mm quando tutti gli altri si apprestavano ad infilarsi dentro le stagne. Anche io ho il brevetto per la stagna, e lì per lì ho pensato di aver clamorosamente sbagliato a valutare la temperatura dell’acqua, ma siamo in agosto e si prevedono almeno venti gradi, e io la stagna la usavo da ottobre in poi. Mah.

Primo tuffo alla secca Carega che è da sola un trattato di biologia del Mediterraneo, secondo al Cristo degli Abissi. Nel briefing la guida ci spiega il profilo dell’immersione e cosa andremo a vedere. Per la mia rentrée farò coppia con uno dei divemaster, giusto per star tranquilli. Passo del gigante per entrare in acqua, ci siamo tutti, si scende.
Per cinquanta minuti sarà tutto blu, riesco a compensare senza alcun dolore alle orecchie, scendiamo ai 33 verso la parete di gorgonie rosse e c’è anche tanto pesce: cernie, salpe, dentici, castagnole e un branco di barracuda stanziali. Riesco a mantenere un assetto decoroso ed uscire con un quarto di bombola d’avanzo alla prima immersione, un po’ di più alla seconda.
Obiettivo raggiunto, posso partire tranquilla.

(Comunque la temperatura era perfetta, e riguardo all muta rimango della mia opinione: se ti butti in mare in modo da non sentirlo addosso neanche quando l’acqua è a venti gradi, o hai sbagliato sport oppure fai parte della categoria che si spalma protezioni ipertenologiche ogni tre per due per poi restare tutto il tempo sotto l’ombrellone, attento a non sporcarsi neanche di sabbia)

Il resto alla puntata numero 2.

“The Sea” – Morcheeba

Agenzia Viaggi Z&M – Road to Botswana

Agenzia Viaggi Z&M – Road to Botswana

Da ragazzina leggevo tantissimo, prima e dopo i compiti mi rintanavo nel sottoscala con il libro di turno e restavo lì per ore. I volumoni di fumetti come Io Topolino li ho letteralmente divorati, ma i miei preferiti erano una vecchia antologia della mitologia greca (lettura poco edificante – gli dei dell’Olimpo, non sono famosi per il rigore morale), un libro costruito con quadri di Paul Klee che raccontava il viaggio avventuroso di un marinaio in un paese fantastico, e poi l’Enciclopedia degli Animali, quella di moda negli anni ‘70 che tutti avevamo in casa.

Di quella serie di volumi grandi e pesanti, rilegati in pelle bordeaux, ero davvero innamorata, e mi perdevo tra le pagine guardando fotografie di animali esotici, curiosi, maestosi e a volte feroci, così lontani che mai avrei pensato di poterli osservare nel loro habitat naturale.

E invece succede che l’idea stavolta parte da una casa sulle colline torinesi, ma sempre intorno ad una tavola apparecchiata. Pare che parlar di viaggi ci riesca meglio a stomaco pieno e gomito alzato. Botswana. La prima reazione è di sorpresa per una destinazione del tutto inaspettata, la seconda un rapido calcolo di quanto tempo resterò fuori dai radar, la terza un sorriso Mentadent al pensiero che quelle pagine tanto sfogliate si trasformeranno presto in un live 3D e ben più di 4K.

Qualche minuto per assimilare il concetto e poi via con l’organizzazione. Nei parchi del Botswana si può andare in due modi: o ti vendi un rene per pagare un viaggio superorganizzato che ti faccia atterrare direttamente in una delle strip all’interno del parco, dormire in un campeggio mobile a 5 stelle tipo La mia Africa e vedere gli animali con un driver che t’accompagna passo passo tipo personal shopper nel Quadrilatero dei Felini, oppure vai con qualcuno che sia davvero bravo nell’offroad e ti sbatti per organizzare tutto da solo.

Noi siamo gli MVP del fai da te, abbiamo chi sa guidare su qualunque terreno e condizione e vogliamo viaggiare con un pick-up attrezzato per il campeggio mobile con le tende montate sopra. Per me già solo l’idea è una figata. Il mio compagno ci mette un po’ a digerire il fatto che dovrà dormire per dieci giorni su un tavolaccio leggermente ammortizzato, ma alla fine l’esperienza che faremo e ciò che andremo a vedere hanno la meglio.

Il mio amico Mau che l’Africa la conosce più che bene mi procura un contatto affidabile per affittare il pick-up in Sud Africa, e da lì si comincia ad organizzare. Volo su Johannesburg via Londra (di questo scalo se ne riparlerà), e i soliti foglio excel/Google MyMaps che man mano si popola di tappe, chilometri, indirizzi e numeri di telefono.


Prenotiamo un Toyota Hilux col cassone chiuso e riempito di una fornitissima attrezzatura da campeggio più tutta una serie di attrezzi utili nel caso dovessimo restare insabbiati o in panne a millemila miglia di distanza dal più vicino centro abitato. L’ipotesi non è così remota, e se in Islanda l’offroad è stato limitato ad un paio di destinazioni, qui non sarà lo stesso. Ci si aspetta sabbia, tanta sabbia. L’Hilux ultimo modello diventerà poi un Ford Ranger con diverse stagioni alle spalle, e a posteriori devo dire che il cambio ci ha aiutato a far passare inosservati i postumi sulla carrozzeria di tutti i passaggi tra i rovi del bush.

Il nostro organizzatissimo planning prevede per il primo giorno l’arrivo a JNB alle 9 del mattino, il ritiro del pick-up e le cinque ore necessarie per varcare il confine a Martin’s Drift, l’unico aperto fino alle 22. È scritto ovunque di evitare di viaggiare di notte onde evitare spiacevoli incontri con animali di stazza importante, e ci stiamo dentro con tutta la contingency. Peccato che il volo da Milano partirà tardissimo causa temporale, lo scalo a Londra si farà letteralmente di corsa tra i corridoi di Heathrow rischiando di lasciare la Fra nelle grinfie degli addetti ai controlli, e all’atteraggio a JNB scopriremo che i nostri bagagli sono rimasti a Londra. Li recupereremo tre giorni e 1.200 km dopo all’aeroporto di Maun.

Ci vuole un tot di tempo in più per compilare tutte le scartoffie con l’addetto della British Airways e ritirare il pick-up dopo la pausa pranzo degli operatori, ma alla fine arriviamo liscissimi alle 21:30 al border post, attraversiamo e dormiamo al motel appena dopo come previsto. Al mattino, veloce shopping di sopravvivenza (generi alimentari, mutande e calzini) e si parte davvero.

Il Khama Rhino Sanctuary è un’area protetta del Kalahari dedicata ai rinoceronti. L’enorme maschio bianco che riposa tranquillo mentre gli passiamo a pochi metri di distanza è qualcosa di meraviglioso, e altri ne vedremo. Kubu Island è una magica isola di granito che emerge da un lago salato prosciugatosi diecimila anni fa. I sedicimila km2 di saline che restano somigliano ad un paesaggio lunare senza confini. Il delta dell’Okawango è un’intricata e mutevole griglia di canali, lagune ed isole popolati da ippopotami e coccodrilli, in cui addentrarsi solo con qualcuno che li conosca come le sue tasche.

Il parco del Chobe è la nostra meta principale, è li che incontreremo, liberi nella savana, quasi tutti gli animali della mia enciclopedia. Giraffe, zebre, facoceri e impala ti osservano pronti alla fuga, cercando di valutare se puoi essere un pericolo. Ai branchi di elefanti è bene non avvicinarsi troppo, e pure le mamme col piccolo a fianco sono sempre pronte a caricare. Se ne vedi una sulla tua pista, torna un po’ indietro, spegni l’auto e mettiti comodo in attesa che decida autonomamente di sgomberare. Bufali e gnu ti fissano negli occhi sostenendo il tuo sguardo, consci della propria velocità, stazza, corna e pure della potenza esponenziale del branco. L’ippopotamo non è il dolce Pippo blu della Lines ma un camioncino da tre tonnellate che potrebbe piombarti addosso a 50 km/h, e un lago che ne è pieno con teste e occhi che spuntano dall’acqua come tanti iceberg marroni fa un certo effetto. Solo il leopardo si nasconde solitario dentro un cespuglio aspettando pazientemente che decidiamo di andarcene, salvo poi scappare a rintanarsi sui rami di un albero, evidentemente sfastidiato per i quattro intrusi che lo guardano con un sorriso ebete dai finestrini semiaperti. In ogni caso, vale sempre la pena ricordare che il Chobe non è uno zoo, loro sono i padroni di casa liberi di andare ovunque, strade comprese, e tu sei l’ospite non invitato.

Le cascate Vittoria sono l’ultimo step di questo viaggio memorabile, con annesso rafting nelle rapide dello Zambesi. Da qui comincia il viaggio di ritorno, alla fine avremo percorso quasi tremila km in dieci giorni.


Consigli non richiesti per chi volesse avventurarsi:

La prenotazione dell pick-up giusto con la con la compagnia giusta è il fulcro di tutta l’organizzazione, e pure filmare l’omino che ti spiega come utilizzare tutti gli attrezzi. Lì per lì pare facile, ma sfido chiunque a ricordare nei dettagli al momento del bisogno cosa era stato detto in un’ora di spiegazioni in inglese.

Il passaggio delle frontiere dei paesi africani meriterebbe un post a sé. E’ tutto piuttosto complicato e con rigide procedure, documentarsi bene. Per entrare in Botswana, bisogna scendere tutti dall’auto e mettere i piedi in una specie di pozzanghera fangosa – disinfettante – stessa cosa si farà con le ruote dell’auto. Procedura lunga (prima le persone poi l’auto), ma abbastanza automatizzata. Non perdere il tagliandino dell’auto che servirà al ritorno. Tutt’altra cosa verso lo Zimbabwe, dove un simpatico omino ti raggruppa a multipli di tre, e se sei solo non puoi passare finché non arriva qualcuno a completare il tuo gruppo. Scopriremo poi che le pagine del registro, da compilare rigorosamente a mano, prevedono tre persone a pagina, ed ogni pagina viene archiviata appena completata.

Dormire nella savana, con la sola compagnia del fuoco acceso è un’esperienza indescrivibile. Una quantità di stelle mai viste. Ogni piazzola ha il suo barbecue, la legna da raccattare in giro non manca, e la cena a base di arrosticini vista tramonto africano non ha prezzo. Aprire e chiudere le tende sopra il pick-up ad ogni sosta il primo giorno sembra complicato, ma le spiegazioni sono state esaustive e la mia esperienze di boulder s’è dimostrata utile per le manovre in quota. Ai versi degli animali durante la notte ci si abitua presto, ai rumori intorno all’auto che non sai di cosa potrebbero essere, un po’ meno, ma fa parte del pacchetto. Prendere o lasciare. Io prenderei di nuovo tutto, e magari la prossima volta riesco a vedere pure i leoni.

“Africa” – Toto






In the Flesh?

A volte passo la notte a cazzeggiare sul tubo e a ripescare oldies but goodies… direi che i FF affiancati a RW non sfigurano, né qui insieme, né nella cover tutta loro al live di Reading

Enjoy, al volume che meritano.

Agenzia Viaggi Z&M – Ísland v.2

Agenzia Viaggi Z&M – Ísland v.2

Milano, un mercoledì di febbraio, settimo piano vista Palazzo della Regione. Sul tavolo, il secondo giro di GT e un tot di salumi e formaggi provenienti da un gioielliere del centro Italia. Intorno, una ternana trapiantata sul Naviglio Grande e due torinesi che spartiscono il tempo tra la capitale degli affari e quella delle auto. Uno è Ste, con cui condivido tranci di vita da qualche anno, l’altro è Zo, suo amico di lungo corso.

Con Zo ci conosciamo da poco ma ci siam capiti subito. Il ghiaccio a cubi grandi e regolari nei bicchieri e quello sulle montagne, le grigliate, una certa propensione per l’on the road e per qualche altra cosa che non si dovrebbe fare. Io poi da sempre lego più facilmente coi maschi che con le femmine, a meno che non siano come me. Forse perché sono un modello essential, forse perché sono cresciuta in mezzo ai metalmeccanici e lo STEM di cui si straparla tanto oggi lo pratico da trentatré anni buoni, forse perché le persone le osservo e le annuso prima ancora di parlarci.

Dunque tra una fetta di spalletta e un tocco di pecorino si parla di viaggi, di mete estive. Zo la butta là: Che ne dite dell’Islanda? Io rispondo senza neanche pensarci. Quando partiamo? Ci sono già stata dieci anni fa, ma tornerei domani mattina. Ste approva. Non è del tutto il suo genere, ma ci sta. E’ il primo vero viaggio che facciamo insieme, il covid ci ha stroncato una settimana a NY con tanto di biglietti già comprati per una partita di basket al Garden, investimento poi recuperato e reinvestito nell’affitto di una casa estiva in Liguria. La Fra ancora non lo sa ma ci starà anche lei, quindi è deciso. Road to Ísland.

Nel giro di pochi giorni prenotiamo volo + auto e buttiamo giù un itinerario su tutta la Hringvegur, più un paio di off road nella regione di Landmannalaugar e nella zona intorno ad Askja. Duemila chilometri in dodici giorni con una Subaru XV, pernottamenti in AirBnb e rifugi, un planning dettagliato giorno per giorno declinato nella versione Excel di Zo e nella mia qui sotto. L’organizzazione la gestiamo noi, cercando di rispettare le seppur minime richieste degli altri due (sistemazioni decenti, almeno una giornata in un posto civile tipo Reykjavík e l’avvistamento dei puffin)

Ogni giorno un colore diverso, con i siti visitati, i posti dove abbiamo dormito, ed i (pochi) locali in cui abbiamo mangiato fuori.
Roba da nerd, as usual, ma magari può essere utile a qualcuno.

Dodici giorni volano veloci, l’Islanda è sempre meravigliosa come me la ricordavo. Ancora mi stupisco di come sia possibile che il paesaggio cambi così radicalmente a perdita d’occhio a distanza di pochi chilometri, a volte di centinaia di metri. La nera e tagliente roccia lavica intorno ai vulcani. Il verde morbido del muschio. Il marrone tinto di zolfo degli altipiani. Il bianco striato di grigio e di azzurro dei ghiacciai, che è sempre la parte che sento di più. Quella che prima o poi mi riporterà qui d’inverno per la versione numero tre. Salgo con Zo sul Sólheimajökull mentre Ste e la Fra ci aspettano al margine dell’area delle escursioni. Di ghiaccio ce n’è visibilmente di meno, arretra al ritmo di 50 metri l’anno, e troviamo invece sabbia e terra che affiorano a tratti. A chi pensa che il climate change sia una un’esagerazione o una invenzione della Greta, suggerirei un giro da queste parti.

2012 vs 2022

Il vero colpo al cuore però me lo da la laguna di Jökulsárlón: dieci anni fa, esattamente nella stessa settimana dell’anno, era una distesa semi solida dove grossi iceberg stazionavano a lungo imprigionati da altro ghiaccio superficiale, per poi affacciarsi lentamente verso il mare o arenarsi sulla vicina spiaggia nera. I gommoni che accompagnavano i turisti si facevano strada a fatica nella laguna, e adesso navigano senza difficoltà nell’acqua azzurra. Gli iceberg, pochi e piccoli, si spostano veloci verso il mare, e anche sulla spiaggia nera c’è ben poco.

La convivenza a quattro fila liscia, così liscia che stiamo già progettando altre avventure. Il tipo di viaggio richiede di base il rispetto di una certa organizzazione fatta di tappe, tempi e imprevisti da prevedere, e funziona. Il tempo speso in bagno è ragionevolmente equo, al mattino nessuno fa la muffa in attesa degli altri, e nel resto della giornata nessuno rompe i c. con pretese fuori luogo per il contesto. Sembrano banalità ma alla fine sono queste le cose che ti possono rovinare una vacanza che aspetti da tanto e su cui hai investito tanto. Non ne succede nessuna, e d’altra parte non saremmo qui e insieme se solo uno di noi avesse avuto il sentore che potesse andare diversamente.


Qualche informazione pratica per chi volesse ripetere l’operazione:

Il vento in Islanda è quella cosa che quando ti affittano le auto, ti dicono che se anche paghi l’assicurazione full coverage con zero franchigia, i danni, appunto, da vento non saranno comunque coperti. Lì per lì potresti non dare molto peso a questa informazione, cosa vuoi che sia il segno di qualche sassolino sulla vernice. Alla prima volta che aprendo uno sportello sentirai il braccio staccarsi dalla scapola mentre cerchi di trattenerlo, allora ne comprenderai bene il senso. L’auto l’abbiamo noleggiata con Icerental 4×4, onesti, corretti e a buon prezzo. Abbiamo perso la targa in uno dei guadi e ci hanno addebitato solo 20€.

2000:12 = ~160 km al giorno. Sembrerebbe poco, su strada normale. Ma quando la strada è una pista rocciosa e a tratti sabbiosa, che fatichi anche a trovare, col vento traverso e un paio di guadi con l’acqua a metà sportello, allora ci possono volere anche sei ore per farli. Dotatevi di qualcuno in grado di gestire tutto ciò e fate che road.is diventi il vostro migliore amico, oppure restate sulla Ring Road (Zo, grazie di esistere. E grazie anche a Fra che durante le tappe più lunghe ha apprezzato la mia spiccata propensione a non parlare della qualunque tanto per)

L’isola del ghiaccio e del fuoco è indubbiamente cara, ma si può andare anche senza svenarsi. Prenotare volo e pernottamenti con largo anticipo, ça va sans dire. Di sera abbiamo cucinato spesso (il risotto disidratato di una nota marca italiana è un salvavita soprattutto nei rifugi), e a pranzo soup of the day come se non ci fosse un domani. Superfluo chiedere cosa c’è dentro perché è buonissima ovunque, e praticamente tutti ti danno almeno un paio di refill free. Il camioncino del Mia’s fish & chips vista Skógafoss è l’equivalente del porchettaro fronte cascata delle Marmore. Imbattibile.

Che altro dire, organizzatevi e partite.

“Il fuoco non si e’ spento” – Bull Brigade

P.S.: I Bull Brigade e questo pezzo con le foto ed il racconto c’entrano il giusto, ma una parte consistente della colonna sonora del viaggio proviene dal punk-rock-ska-metal torinese. Subsonica, Fratelli di Soledad, Linea 77, roba così, piu tutto il resto che ascolto abitualmente. Anche su questo ci siamo trovati.

Qui invece c’è la gallery di Lightroom, se qualcuno riuscisse a dirmi se c’è modo di fare l’embed in WordPress, gliene sarò eternamente grata, c’è voluto un tot a riordinarle, taggarle e sistemarle per bene qui dentro, tentando di dargli un senso che vada oltre la posizione dep GPS.

Viaggio al Centro della Terra – Fagradalsfjall


Of Fire and Ice


Aerials (Life is a Waterfall)


La Terra di Mezzo


Only the Brave


A Nord della Barriera


Eastwatch-by-the-Sea


Deadliest Catch


Any Colour You Like


Sette

Sette

Il primo febbraio del 2016 era un lunedì, ed è stato il primo giorno della versione 2.0. Questa foto l’ho scattata quella mattina lì, dalla finestra dell’Airbnb affittato per i primi due mesi, poco prima di uscire per il primo giorno di lavoro.

Restart. Retry. Magari con meno errori. Oppure, più plausibile, con errori diversi. Una possibilità non così scontata quella di spogliarsi propria pelle e di un intero armadio di vestiti ormai troppo stretti. Come la muta di un serpente. Contorcendosi e strofinandosi contro le rocce, i serpenti escono dalla loro vecchia pelle mettendo a nudo quella nuova formatosi al di sotto, ed abbandonando il vecchio strato tutto intero, tutto in un solo colpo.

Persone. Luoghi. Lavoro. Strade. Abitudini. Amicizie. Amori. Un letto nuovo in una casa nuova.

Mi ricordo le sensazioni provate quel giorno, il pomeriggio della domenica quando avevo parcheggiato sotto l’appartamento con due borse formato Ryanair nel portabagagli, quelli successivi quando ho iniziato a guardarmi intorno.

Il dubbio di non essere all’altezza. L’improvviso senso di libertà dopo l’oppressione dell’ultimo periodo. La curiosità di esplorare. La certezza assoluta di dovercela fare da sola. Il senso di precarietà di un tetto non di mia proprietà. Ma mai una volta mi ha sfiorato il pensiero di voler tornare indietro, di aver fatto la scelta sbagliata.

Sette.

Vi risparmio la disamina delle proprietà di questo numero dispari, chi ha voglia ed è nerd abbastanza da sopportarla, può trovarla qui.

A esattamente sette anni di distanza potrei essere ad un altro bivio importante, e ancora per motivi di lavoro. C’è una integrazione in corso che assomiglia molto di più ad una colonizzazione. Mi sento un po’ come dovevano sentirsi gli Aztechi all’arrivo di Cortés, e non mi sta piacendo affatto. Guarda caso, anche questi sono spagnoli, dev’essere una abitudine consolidata per loro. Ma non è ancora il momento di agire, voglio aspettare ancora un po’ e magari qualche cadavere passerà mentre siedo lungo il fiume. Oppure no.

We’ll see.

Per adesso tengo botta.

“Too good for giving up” – Liam Gallagher

Nada Surf

Nada Surf

Ho il passo veloce, ce l’ho da sempre anche se sono piccola. Piccola nel senso che sfioro il metro e cinquantaquattro. Per anni sono stata convinta d’arrivare almeno ai cinquantasette, la delusione è arrivata alla visita medico-sportiva di cinque anni fa. Su queste cifre, anche un centimetro fa differenza. Sarà stato dunque per la mia altezza che il passo s’è adattato, per stare a quello degli altri. Non mi sta dietro neanche il mio compagno che pure è ben più alto di me. Contrasti. Gli uomini mi sono sempre piaciuti alti. Alti e di sostanza, che quelli esili e mingherlini ti rimangono sotto i ferri.

Oggi è il secondo giorno di ferie natalizie anche se sono qui in montagna da più di una settimana, potenza (…) dello smart working. Su queste due parole si potrebbe aprire una parentesi immensa, ma lasciamo perdere. Davanti casa c’è un innaturale prato verde, su in alto una neve che tiene al massimo fino alla mezza. Così mi dicono, io non scio più da quando mi sono fracassata il ginocchio destro cadendo da ferma e fuori pista. Chi scia può immaginare come possono essere andati sia il recupero col toboga che i postumi.

Dunque sono qui, e l’unica cosa che posso fare di giorno è camminare. C’è un bel sole, e ho nelle orecchie un pezzo che mi mette di buonumore e contribuisce al passo. Ha il ritmo giusto. Non ricordo come l’ho scoperto, forse per via di quel surf nel nome del gruppo. Non sono ancora riuscita a surfare un’onda, ma qualche anno fa ho provato a surfare la neve. Finché ero col maestro, tutto bene, curvavo anche discretamente, poi da sola era più il tempo che passavo a terra che in piedi, e ho smesso. Non potevo rischiare di farmi male sul serio e non poter remare o arrampicare, che sono le cose a cui tengo davvero.

Dunque cammino, surfando sui pensieri e sul nulla, col sorriso sulle labbra. O forse è solo nella testa e nel cuore, ma per me basta. 

“Popular” – Nada Surf