Fiesta

E i bicchieri erano vuoti
e la bottiglia in pezzi
E il letto spalancato
e la porta sprangata
E tutte le stelle di vetro
della bellezza e della gioia
risplendevano nella polvere
della camera spazzata male
Ed io ubriaco morto
ero un fuoco di gioia
e tu ubriaca viva
nuda nelle mie braccia

(Jacques Prévert)


Stripped

“Let me see you stripped down to the bone”

Trees

“Stripped” – Depeche Mode

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Trovato

Quarto capitolo della serie “Collaborazioni”, che a questo punto mi sembra abbastanza collaudata. Il racconto è di Wish aka Max.
Sulla riva

“Private Investigations” – Dire Straits

Lo avevo trovato, finalmente. Gli avevo dato la caccia dappertutto, in Italia e in Europa, senza mai riuscire ad acchiapparlo. Ma questa sembrava proprio la volta buona.
Era un incarico strano, questo, e mi ci ero accanito anche per questo. Di solito non accetto di lavorare coi privati. Preferisco un mandato proveniente da professionisti del settore, criminalità organizzata, ma anche delinquenti di basso profilo. I privati sono sempre un casino, ci mettono dentro le emozioni, quasi sempre sono mariti cornuti che vogliono far fuori non la moglie, ma l’amante. Insomma sono un professionista, non mi metto coi dilettanti. Faccio lavori puliti, nessun coinvolgimento emotivo, nessuna traccia, nessun riferimento ai miei clienti. Certo, sui giornali di solito il giorno dopo si parla di “regolamenti di conti”, di “probabili mandanti”, ma non c’e mai nulla di acclarato.
Lavoro con metodo, con una attenta e accurata pianificazione. Studio le caratteristiche del soggetto meticolosamente. Per prima cosa facendo una dettagliata intervista al mio cliente, iniziando a mettere giù una scheda di massima, con caratteristiche, abitudini, luoghi frequentati. Poi cerco su Internet. Ho amici hacker che mi hanno fornito una serie di software spia che mi consentono di accedere a informazioni riservate, un pot-pourri di applicazioni per intrufolarsi nei dati dello Stato. Se il soggetto ha uno smartphone, gli sparo dentro un virus con un’app che mi indica la sua posizione GPS in qualunque momento. Ricorro agli appostamenti solo come ultima risorsa, e solo se strettamente necessario. Di solito, mi basta un incontro “casuale” con il soggetto, per osservarlo bene e memorizzare le caratteristiche salienti.

Un giorno era venuto da me un padre disperato. Lo mandava un amico di un amico di un amico, una lunga catena di conoscenze che alla fine lo aveva portato a me. Gli avevo detto che non lavoravo coi privati. Anzi in prima istanza gli avevo detto che aveva preso un grosso granchio, che io ero un agente assicurativo, e anzi per chi mi aveva preso. Mi aveva risposto di consentirgli soltanto di raccontarmi la sua storia, e poi se io non avessi accettato di occuparmi della faccenda si sarebbe ritirato in buon ordine. Mi aveva raccontato del figlio dodicenne, di quando lo avevano trovato morto, di come lo avevano violentato e torturato. E mi aveva raccontato delle foto, del video snuff. E poi mi aveva detto che c’era questo regista snuff che pagava per avere i bambini, che pagava i torturatori e pagava chi alla fine li ammazzava. E mi aveva dato gli atti del processo, nel quale, nonostante gli indizi schiaccianti, il porco era stato assolto per insufficienza di prove. Una serie di cavilli giuridici che non avevano reso ammissibili alcune prove, un avvocato tosto, e alla fine lo avevano lasciato andare. Aveva con sé un tablet, mi ha fatto vedere alcune foto. Me ne sono bastate tre. Non ho voluto vedere il video. Ho detto che ci avrei pensato. L’ho accompagnato alla porta, e quando si è girato per stringermi la mano e mi ha guardato negli occhi gli ho detto che andava bene. Accettavo. Avrei fatto il lavoro.

E ho iniziato come al solito. Ovviamente il mio cliente poteva dirmi poco del soggetto, visto che lo conosceva solo per via degli atti del processo. Così sono entrato nella banca dati del tribunale, e scartabellando tra i verbali di indagine di Polizia e Carabinieri ho scoperto che i soldi veri li faceva con Internet. Aveva un sito in abbonamento con pagamenti con carta di credito effettuati mediante un server anonimo alle Cayman, che cambiava dominio e indirizzo ogni pochi giorni. L’accesso era criptato con algoritmi di ultima generazione, quindi anche monitorando il traffico non si sarebbe arrivati a niente. Insomma, era uno che di informatica ne capiva, e anche parecchio. E infatti non mi era riuscito di trovare il suo telefono.

Ero andato ad appostarmi sotto casa sua, e dopo un po’ di tempo avevo accumulato qualche scarna informazione. Ero lì lì pronto per agire quando mi era sparito dal giorno alla notte. Avevo chiamato il mio cliente, che mi aveva detto che lo aveva incontrato e gli aveva detto che aveva assoldato un professionista. Ecco perché non lavoro coi privati. Finiscono sempre per combinare qualche casino.

Un amico in polizia alla fine mi aveva fornito il suo numero, e gli avevo piazzato dentro la mia app per la rilevazione GPS. Il problema vero è che l’app funzionava solo quando il telefono era acceso, e lui lo teneva quasi sempre spento. Era iniziata la caccia, da Roma siamo andati a Milano, poi a Venezia, Torino, Firenze, Napoli, Palermo, Düsseldorf, Londra, Bruxelles, Parigi, e non ricordo neanche tutte le tappe. Erano tre mesi che giravo a vuoto come un pollo senza testa. Alla fine eravamo tornati a Roma, e aveva per l’ennesima volta spento il telefono. Era domenica, faceva un caldo torrido. Avevo pranzato, e col condizionatore acceso ero andato a fare una pennichella. Improvvisamente la mia app di controllo si mise a suonare, svegliandomi di soprassalto. Aveva riacceso il telefono, e sembrava si stesse muovendo in auto. Mi vestii e presi quel che serviva, senza dimenticare la mia fidata Glock con silenziatore.

Mi misi in auto e vidi che si dirigeva verso Civitavecchia. Guidai come un forsennato, mentre lui si dirigeva verso Viterbo prima, poi Montefiascone, e infine Bolsena. Il telefono continuava ad essere acceso, e indicava un punto sulla strada. Continuai a seguire la mappa, e arrivai ad un bar da cui si vedeva il lago. Parcheggiai e tornai verso il punto indicato dalla mappa a piedi, mettendo al massimo l’ingrandimento. Il punto era al di fuori del bar, c’era un unico avventore. Era il tramonto, la vista del lago era incantevole. In lontananza, le luci delle case sulla riva opposta, e una pallina di fuoco poco sopra l’orizzonte stava tramontando. L’uomo mi dava le spalle, aveva un cappello in testa ed un giaccone. Sedeva ad un tavolino sul quale c’era un vassoio con due birre e due bicchieri. Mi nascosi, pensando che avesse appuntamento con qualcuno. Stetti lì ad aspettare, il sole era tramontato ed era buio. L’uomo rimaneva immobile, apparentemente guardando nel vuoto. Venne il cameriere, a dirgli che stavano chiudendo, lui fece sì con la testa e il cameriere portò via il vassoio, le birre e i bicchieri. Il bar chiuse. Uscii dal nascondiglio e mi avvicinai silenziosamente, sino ad arrivare alle sue spalle.

  • Ti aspettavo, mormorò.
  • Non voltarti.
  • Era ora che arrivassi, non ne posso più di averti alle calcagna. Fai quello che devi fare, ma fai in fretta.
  • Ti piacerebbe, ringhiai.

Tirai fuori l’arma che avrei voluto usare con lui sin dall’inizio. Due maniglie di legno con una corda di pianoforte in mezzo. Una garrota artigianale, ma molto più efficace.
Gliela passai attorno al collo con un unico gesto e iniziai a stringere. Tentò di alzarsi in piedi, strinsi di più mentre gli sibilai nell’orecchio: – Sta a te decidere, stai buono e durerà poco, fai resistenza e restiamo qui sino a domattina. Si lasciò ricadere sulla sedia, portando solo le mani al collo. Strinsi ancora un po’. Gli mancava l’aria. Allentai la presa, fino a sentire il suo respiro. Più che un respiro era un rantolo. Strinsi di nuovo, iniziò ad agitare le mani, apriva e chiudeva la bocca tentando di ingoiare aria. Allentai. Non potevo vederlo, ma ero certo avesse il viso paonazzo. Strinsi forte ora. Iniziò a dibattersi come una farfalla impazzita, sembrava Priss in Blade Runner. Agitava la testa di lato, mimando un no, e ancora aprendo e chiudendo la bocca. I piedi battevano sul pavimento. Continuai a stringere sino a quando non smise di dibattersi, e mantenni stretto ancora un po’, per sicurezza.
Verificai che l’incrocio della corda fosse posizionato bene.
Allargai le braccia, e contemporaneamente feci un salto all’indietro. La testa si staccò di netto dal corpo, e dal collo uscì un fiotto di sangue. Ero stato bravo. Neanche una goccia mi aveva macchiato.

Pieces

Pieces

Oggi ho recuperato l’ultimo pezzo importante rimasto nell’altra casa, a un anno e mezzo da quando ne sono uscita. E’ un impianto HI-FI che nonostante l’età fa ancora egregiamente il suo lavoro, amplificatore, tuner, piatto, lettore CD, casse.
Importante non per il valore economico, non credo valga più niente. E’ una questione affettiva, il primo acquisto fatto con soldi miei, non regalati ma guadagnati, quasi ventisei anni fa.

È anche l’unico pezzo che ci tenevo a riavere, dei tanti rimasti compreso il pezzettino di cuore. Di tutto il resto non voglio sapere niente, erano cose portate per essere usate lì dove si viveva d’estate, non mi importa della fine che faranno o che hanno già fatto. Di certo non le voglio qui, portarsele via insieme al contenuto dell’armadio non avrebbe avuto alcun senso se non un volersi fare ulteriormente male. In questa casa ce ne sono già abbastanza a ricordare il tempo vissuto insieme, ogni tanto spunta ancora qualcosa, un oggetto, una fotografia… all’inizio ne soffrivo e lo ricacciavo nel cassetto da cui proveniva, adesso quasi ne sorrido.

C’è una parola che oggi stranamente mi sono trovata davanti due volte, due post in due blog diversi. Resilienza, nell’accezione psicologica del termine. E’ una parola che conosco bene e che uso per motivi di lavoro, ma nelle accezioni informatiche e ingegneristiche, essendo io una sistemista in una azienda che produce acciaio.
Cito Wikipedia: “in psicologia, la resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà”. Se è così, sono resiliente anche io.

Il tempo ora scorre tranquillo, come se fossero passati anni luce. Fa uno strano effetto pensarci. Fa uno strano effetto sentirsi. Le poche volte che è successo, motivi “tecnici”, non ce ne sono altri, mi è sembrato come parlare con un vecchio amico, uno di quelli però di cui conosci i dettagli di tutta la vita.
La distanza aiuta a ragionare, assimilare, assorbire. A non sentire la mancanza. A non pensarci più.

“Pieces” – Trixie Whitley

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Enjoy the silence

C’è un silenzio innaturale stanotte, che proviene dalle finestre aperte e che mi dispiace disturbare anche con la musica. Niente auto, nessun animale e neanche il treno.
Altre notti, avrei cercato di dormire aiutandomi con delle playlist tranquille e rilassanti, oggi no, va bene così. Mi godo questo silenzio, la notte ancora buia, e tutte le stelle delle cielo.

image

Liebster Award, III


Le nomination in generale mi sanno un po’ di catena di Sant’Antonio, le domande di cristinadellamore però sono diverse dalle solite, quindi rispondo volentieri.
Non nomino nessun altro, ma chiunque lo voglia può rispondere alle stesse domande poste a me.

Cosa ti aspetti dalla persona che scegli come partner?
Fiducia reciproca, intesa fisica, condivisione di interessi e rispetto dei propri spazi.
Lo so, non è poco, e infatti il partner non c’è!

Come ti immagini di qui a cinque anni?
Più o meno come ora.

Come immagini il tuo partner di qui a cinque anni?
Vedi sopra…

Il tuo partner ti propone di fare sesso a tre. E tu dici…
…che non amo condividerlo…

Hai vinto una piccola somma col gratta e vinci. Non basta per cambiarti la vita, ma ti permetterebbe un fine settimana all’estero (Londra, Parigi o Berlino, in hotel di lusso) o un rinnovo completo del guardaroba. Cosa scegli?
Un fine settimana ovunque, senza il minimo dubbio. In compagnia.

Cinque cose che assolutamente farai prima di morire (non prendetevela, cose del genere allungano la vita).
Cinque sono poche, la mia lista di cose da fare al momento è composta da 58 elementi di cui 35 smarcati

Una cosa, invece, che assolutamente non faresti mai, ne andasse della tua vita.
Tradire la fiducia di qualcuno, se il qualcuno è davvero importante.

Siamo blogger ed amiamo scrivere. Hai un romanzo nel cassetto?
No, scrivo incidentalmente ogni tanto, non sarei proprio capace di far di più.

Devi perdere peso. Dieta o palestra?
Dieta non ferrea (altrimenti non riuscirei a sostenerla) e corsa.

Per un pomeriggio di relax, cinema o libro?
Libro, d’inverno davanti camino acceso, d’estate all’ombra di un albero in campagna.

Di libri, architettura, cristalli di ghiaccio, AC/DC. 

Siamo in fila poco dopo l’autodromo di Imola, si avanza di venti centimetri al minuto, se va bene. Avrei preferito rimanere in zona e ripartire domani, ma uno di noi deve rientrare. Io che sono persona comoda, mi ero invece presa due giorni di ferie da tempo. Che poi con la coda che c’è, arriveremo a casa tardissimo lo stesso.
Mollo il volante all’amico rompiballe e mi faccio trasportare, tutta colpa sua se in questo momento non sono già docciata e pronta per dormire, giusto una pagina del libro poi sarei caduta nel mondo dei sogni.

In questi giorni ne sto leggendo uno che mi è stato (molto ben) consigliato, tratta l’importanza e l’influenza dei sensi nei progetti di architettura. Io faccio tutt’altro lavoro, ma sono curiosa di molti argomenti e in questo libro ce ne sono concentrati due che mi interessano parecchio.

Del ruolo dei sensi ho parlato più di una volta, con la convinzione che la vista è sopravvalutata, o meglio, che tutti gli altri sono sottovalutati. L’olfatto genera in me reazioni ben più forti, poggiare le dita su un oggetto ad occhi chiusi costringe come minimo ad avvicinarsi con cautela, percorrerne la forma e tastarne la consistenza prendendosi il tempo necessario per conoscerlo rispetto alla rapida presa che avremmo fatto ad occhi aperti. Un comportamento analogo sarebbe necessario per mangiare senza guardare; raramente poi ci si sofferma sul sapore già acquisito di un cibo.
Questo per dire che i sensi hanno tutti il loro peso.

Quanto all’architettura, visitando alcuni musei sono stata affascinata tanto dalle opere esposte quanto dall’edificio ospite, il Guggenheim di New York su tutti. Altrettanto affascinante è stato vedere progetti di riutilizzo per altri fini di grandi strutture preesistenti, come la High Line e la Tate Modern, oppure un’opera d’arte costruita con il preciso intento di destinarla all’uso dei meno abbienti, come l’ insieme di case popolari di Hundertwasser a Vienna.

Ora io non ho la formazione e la cultura necessarie per comprendere la progettazione di tali opere, il mio punto di vista è quello dell’utente che fruisce ciò che la mente dell’architetto ha creato e ne gode gli effetti. Ed è qui che si inserisce il libro, ponendo l’accento sulle sensazioni e le percezioni che un edificio è in grado di generare piuttosto che sugli stili o le forme, sui sensi come ingredienti e fini del progetto, e sul modo in cui il risultato desiderato è stato ottenuto, spiegandolo senza fare uso di un linguaggio troppo complicato.

E succede che adesso so da dove derivano le emozioni inconsciamente provate al cospetto di quegli edifici, la tensione nel risalire la spirale del Guggenheim e la sensazione di totale immersione nella luce della Gare d’Orsay, come un subacqueo avvolto dall’acqua.

Andando avanti, ho trovato inaspettatamente riferimenti ad altri libri già letti, come “Il profumo” di Patrick Süskind, e “Il senso di Smilla per la neve”, di Peter Høeg, di cui sono riportati degli estratti.

smilla

Quanta sensibilità ci vuole per distinguere le infinite sfumature di bianco di un paese nordico? Un fiocco di neve da un altro? Qanik, firn, hikuliaq….

Neve, cristalli, ghiaccio… mi torna in mente quel giorno in Islanda, quando mentre tutti gli altri fotografavano l’immensità del paesaggio e le decine di iceberg arenati sulla spiaggia, io mi perdevo nei minuscoli dettagli di uno solo.
A guardarlo da lontano, sembrava un anonimo blocco come tanti altri, ma avvicinandomi con il macro, ho scoperto un’infinità di quei cristalli, accalcati uno di fianco all’altro come le 90.000 persone del concerto di stasera. Solo che i cristalli erano molto più ordinati, a formare un disegno che sembrava scolpito da un cesellatore piuttosto che dalla natura.

Cristalli

 E intanto si sono fatte le 2:15, il tempo passa, la strada no. Chissà quando arriveremo.

Ultima Alba

Con le collaborazioni ci abbiamo preso gusto, il racconto stavolta è di metalupo, e anche la musica è un’idea sua, ci sta proprio bene.

Vik

“Shine On You Crazy Diamond (Part I-III)” – Pink Floyd

Vik, Suðurland region
Iceland

Adesso

L’uomo del tempo osserva il relitto adagiato sulla sabbia nera.
Osserva le orbite scavate dai traccianti blindati, i resti della carlinga corrosa dalla salsedine, quello che rimane del DC3 Dakota, uno scheletro abbandonato in riva all’oceano.
L’uomo del tempo lo sa ed è per questo che lo chiamano così, concede un’altra veloce occhiata all’aereo, alla distesa di corpi umani scomposti, aggrovigliati in pose innaturali, violati all’essenza stessa della carne.
Lui lo sa.
Il tempo vince sempre.

La notte prima

Vikingasveitin.
Fantasmi in evaporazione sistematica, all’origine la perfezione del combattimento urbano, squadre SWAT, special weapons and tactics, ora qualcosa di molto oltre portato al limite nelle dure lande desolate del grande inferno bianco.
Addestrati in Norvegia, di base ad Akureyri, controterrorismo, sabotaggio navale in ambiente artico, lanci HALO direttamente sul pack, tiro di precisione in alti venti a temperature polari.
I Vichinghi della squadra Bravo hanno freon che circola nelle vene, sono perfettamente consci di far parte di una ristrettissima élite di soldati professionisti, sono altrettanto consci che forse, questa notte, potrà non bastare.
Olafur Arnarsson è il majuri della squadra, il secondo nella catena di comando.
A trentadue anni è considerato un veterano, ha combattuto, si è addestrato con le migliori forze speciali del mondo, impugna un Armalite M307 fasato plasma, ottanta dardi caseless nel caricatore a spinta magnetica del fucile d’assalto, eppure le sue mani non smettono di tremare.
Eppure quello che osserva attraverso il visore starlight gli congela il respiro in una morsa d’acciaio.
I corpi avanzano ancora.
– Signore.
Un fiato livido, perturbazione nelle molecole.
– Li ho visti Olafur.
Generale di brigata Einar Ragnarsson, comandante dei Vikingasveitin, quarantasette anni, fisico asciutto, gli occhi azzurri del generale sembrano mandare lampi infuocati attraverso la tinta mimetica bianca che gli stravolge i lineamenti.
L’uomo del tempo osserva il cronografo militare ancorato al polso sinistro, diciassette minuti esatti, i corpi si rialzano dopo diciassette stramaledetti minuti.
Il tempo di ricaricare le armi.
Tutte le armi.
Ragnarsson scandisce da una settimana i tempi della squadra, da quando la follia ha invaso la sua terra, da quando il respiro dello Strokkur, forse il più famoso geyser islandese, ha liberato nell’aria qualcosa.
Qualcosa emerso dalle profondità della terra, qualcosa di aerobico che si è sparso rapidamente nell’atmosfera mutando per sempre la vita dell’isola dei vulcani.
Probabilmente mutando per sempre l’intero percorso dell’umanità.
Rientrati dal Galles in fretta e furia dopo un’allerta generale diramata dallo stato maggiore di Reykjavik, gli specialisti dello squadrone Bravo hanno intrapreso il cammino dell’incubo senza fine.
Nel 2024 l’Islanda conta una popolazione di circa quattrocentomila unità, le stime di quello che resta del governo centrale parlano di un contagio allargato al sessanta per cento degli islandesi.
Uomini, donne, bambini trasformati in macchine di morte.
Sete di sangue, fame di carne.
Carne umana.
Einar rabbrividisce sotto la tenuta artica da combattimento, in quei diciassette minuti hanno tentato di tutto, granate a frammentazione, armi da fuoco, esplosivi, asce, mani nude.
I corpi smembrati sembrano dotati di una memoria selettiva che permette alle cellule una sorta di rigenerazione spontanea.
La carne si ricompone con calma, con pazienza, la carne si rialza e pretende.
Olafur, di nuovo.
– Signore, cento metri.
Il generale, chiude la mano destra attorno all’impugnatura della pistola da combattimento, fa scattare il perno di armamento del percussore e osserva il cielo stellato respirando a fondo l’aria tersa.

Adesso

Sedici minuti e cinquantanove.
Qualcuno, chiuso in un laboratorio da qualche parte, sotto metri di roccia, gli occhi incollati a un microscopio.
Qualcuno ha sintetizzato una cura.
I primi vaccini vengono inviati in fretta e furia per essere diffusi nell’atmosfera dell’isola, spediti con un vecchio aereo militare in gran segreto, spediti con un team di scienziati pronti a tutto.
Grosso errore.
Nessuna ha calcolato la potenza del virus, la velocità, la resistenza in alta quota.
Il generale passa le dita sul relitto nerastro, attraverso le orbite vuote le creste spumose del mare si frangono lungo la spiaggia nera.
Dodici minuti.
I corpi fremono, sangue e carne si mischiano alla sabbia vulcanica, i copri si preparano ancora una volta.
Otto minuti.
Einar lo sa, lui è l’uomo del tempo, sa quanto manca.
La decisione è stata presa lontano da loro, uomini seduti a una scrivania sorseggiando caffè tiepido in maniche di camicia hanno deciso per loro.
Hanno deciso per TUTTI loro.
Quattro minuti.
In lontananza il rombo del bombardiere strategico si fa più vicino, Einar stacca il respiratore NBC, si leva la maschera dalla faccia e inspira a fondo l’odore di salsedine per l’ultima volta, i gabbiani sembrano salutare la squadra Bravo con le loro urla.
Due minuti.
I primi cadaveri si rialzano sui gomiti corrosi, occhi vuoti, crani deformati dagli impatti.
Einar sorride.
Tempo zero.
Luce.

Heart of Glass

Heart of Glass

“Heart Of Glass” – Blondie

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