Di libri, film e adolescenza

Leggo tanto, da sempre. Da bambina avevo un posto in casa che era solo mio, il sottoscala. Era la mia tana, il mio rifugio. Della tana aveva anche le dimensioni, perché il soffitto seguiva le scale che scendevano dal piano superiore, ed arrivava ad essere così basso che ero l’unica che potesse entrarci, la più piccola di casa. D’inverno era anche caldo, perché dietro alla parete laterale c’era il camino della cucina. Ci passavo ore ed ore, lì c’erano tutti i miei giochi e le mie letture, dalle prime favole ai gialli dei ragazzi Mondadori, dai fumetti di Topolino fino al Libro dei miti greci e I ragazzi della via Paal. Poi sono cresciuta, non così tanto in altezza in realtà, ma quanto basta per non entrarci più li sotto.

Ho continuato a leggere, ma in camera mia. Fumetti e romanzi, con una certa predilezione per il genere thriller/giallo e la fantascienza. A un certo punto ho incontrato Stephen King. Carrie. Shining. Christine. La zona morta. Letti tutti in fila, una folgorazione. Raramente a fronte di un bel libro ne risulta una trasposizione cinematografica altrettanto bella e convincente. Brian De Palma e Stanley Kubrick hanno fatto invece un lavoro egregio, aggiungendo uno strato in più ai libri stessi con la loro personale interpretazione. Gli occhi immensi di Sissy Spacek. Quelli spiritati di Jack Nicholson. Perfetti.

Poi un giorno me ne è capitato in mano uno diverso, di tutt’altro genere rispetto a ciò che avevo già letto di King. Ed è stata un’altra folgorazione.
Ci sono libri che leggo, anche belli, ma che passano nel dimenticatoio dopo l’ultima pagina.
E poi ce ne sono alcuni che rimangono anche a distanza di anni. Si contano sulla punta delle dita. Di uno ho già parlato qui, quello a cui ho ripensato oggi è Stagioni diverse. O meglio, ho ripensato ad uno dei racconti contenuti in questo libro, Il corpo. Il gancio è stato un pezzo famosissimo della colonna sonora del film che è anche parte del titolo, Stand by me, ogni volta che l’ascolto il collegamento è automatico. Due libri per certi versi simili, ambientati negli Stati Uniti tra gli anni ’50 e ’60, storie di adolescenti che crescono e si scontrano. Guerra sociale in città nel primo, voglia di diventare dei piccoli eroi nel secondo. Da entrambi sono stati tratti dei film altrettanto belli, almeno per me.

Di Stagioni diverse mi sono tornati in mente due pezzi sulle parole, uno all’inizio e uno verso la fine.

Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci sì vergogna, perché le parole le immiseriscono — le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portar via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare.

…..

Si allontanò, sempre ridendo, muovendosi con agilità e con grazia, come se non fosse tutto rotto come me e non avesse le vesciche ai piedi come me e non fosse pieno di bolle e di morsi di zanzare e di calabroni e di tafani, come me. Come se non avesse il minimo pensiero al mondo, come se se ne stesse andando in un gran bel posto invece che solo a casa, in una casa (una baracca, sarebbe più vicino alla verità) di tre stanze senza servizi e con le finestre rotte coperte di plastica e un fratello che probabilmente lo stava aspettando nel cortile davanti. Anche se avessi saputo la cosa giusta da dire, probabilmente non avrei potuto dirla. I discorsi distruggono le funzioni dell’amore, credo — è un bel casino per uno scrittore dire una cosa del genere, penso, ma sono sicuro che è così. Se parlate per dire a una daina che non avete nessuna intenzione di farle del male, quella svanisce in un batter di coda. La parola è danno. L’amore non è quello che quei poeti del cazzo come McKuen vogliono farvi credere. L’amore ha i denti; i denti mordono; i morsi non guariscono mai. Nessuna parola, nessuna combinazione di parole, può chiudere quelle ferite d’amore. È tutto il contrario, questo è il bello. Se quelle ferite si asciugano, le parole muoiono con loro. Credetemi pure. Io mi sono fatto una vita con le parole, e so che è così.

Ho voglia di rileggerlo tutto. E anche di rivedere il film.

“Stand By Me” – Ben E King

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More than meets the eye

“Hey Hey, My My (Into the Black)” – Neil Young & Crazy Horse

“Hey Hey, My My (Into the Black)”

Hey hey, my my
Rock and roll can never die
There’s more to the picture
Than meets the eye.
Hey hey, my my.

Out of the blue
and into the black
You pay for this,
but they give you that
And once you’re gone,
you can’t come back
When you’re out of the blue
and into the black.

The king is gone
but he’s not forgotten
Is this the story
of Johnny Rotten?
It’s better to burn out
‘cause rust never sleeps
The king is gone
but he’s not forgotten.

Hey hey, my my
Rock and roll can never die
There’s more to the picture
Than meets the eye.

Beautiful mistakes

“Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti, non hanno inciampato. La loro è una virtù spenta, di poco valore. A loro non si è svelata la bellezza della vita”.

(Borìs Pasternàk – Il dottor Živago)

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“Beautiful” – Elvis Costello

Every day is so wonderful
And suddenly, it’s hard to breathe
Now and then, I get insecure
From all the pain, I’m so ashamed

I am beautiful no matter what they say
Words can’t bring me down
I am beautiful in every single way
Yes, words can’t bring me down
So don’t you bring me down today

To all your friends, you’re delirious
So consumed with all your doom
Trying hard to fill the emptiness
The piece is gone left the puzzle undone
Is that the way it is

You are beautiful no matter what they say
Words can’t bring you down
You are beautiful in every single way
Yes, words can’t bring you down
So don’t you bring me down today…

No matter what we do
No matter what we say
With the song inside that’s you
Full of beautiful mistakes
And everywhere we go
The sun won’t always shine
But tomorrow we might wake up on the other side
All the other times

We are beautiful in every single way
Words can’t bring us down, oh no
We are beautiful in every single way
Yes, words can’t bring us down
So don’t you bring me down today

Undici Settembre 2001

Mi ricordo esattamente dove ero e cosa stavo facendo.
Come credo quasi tutti.

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“Invisible Sun” – The Police

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Missing calciomercato

Quando venticinque anni fa ho varcato per la prima volta l’ingresso della palazzina in cui passo ancora almeno otto ore al giorno, confesso di essermi sentita un po’ intimorita.
Avevo vent’anni, e pur essendomelo guadagnato quel lavoro, ero l’ultima arrivata. Poi sono timida per natura, ci metto un po’ ad avvicinare e lasciar avvicinare le persone. A volte un bel po’. A volte non succede proprio.
Cinque anni a programmare in un linguaggio che solo gente della mia età ricorda, poi l’area tecnica. Un luna park, per me. Io sono quella che alle medie scelse di fare circuiti elettrici invece che imparare l’uncinetto. Che smanettava le ROM dei primi Windows Mobile. Che nell’armadio ha un set completo di giraviti e brugole.

Immaginate me, a venticinque anni, trapiantata in un mondo fatto di uomini dai quaranta in su, per la maggior parte metalmeccanici provenienti dall’acciaieria e convertiti in informatici, abituati a non doversi preoccupare del fatto che ci sarà una donna ad ascoltare e condividere le loro conversazioni.
Due sono i tratti fondamentali e distintivi del metalmeccanico ternano: il primo è il linguaggio colorito che lascia poco spazio all’immaginazione, l’altro è che il tema principale delle sue conversazioni è il calcio, in tutte le sue sfaccettature e ramificazioni, locali, nazionali e internazionali.

Ora immaginate loro, che non si sono minimamente scomposti al mio arrivo, e hanno proseguito a comportarsi come se io non ci fossi. Forse all’inizio sono stati un poco più attenti ma col tempo sono arrivati a considerarmi parte dell’arredamento. Superato lo scoglio iniziale, s’è sciolta anche la mia timidezza. C’era anche un’altra donna con noi, ma per diversi anni siamo state in stanze diverse.
La mia educazione tecnica e sistemistica è cresciuta di pari passo con quella calcistica. Corner. Fuorigioco. Fallo da ultimo uomo. Non sono mai stata una grossa fan del calcio, a parte il tifare Inter per tradizione familiare trasformatasi in indefesso affetto, ma l’apprendimento è stato inevitabile. Tralasciamo quello che ho imparato sull’altro versante. Sarà per questo che a tutt’oggi non dico parolacce, mi scappano proprio raramente e per giusta causa.

Col tempo, i metalmeccanici originari sono stati sostituiti dalle nuove leve, sempre uomini, sempre più tifosi di calcio. Fino a ritrovarmi in un open space, molto open ma con con pochissimo space, gomito a gomito con tredici colleghi uomini, le scrivanie disposte a file come i banchi di scuola, e la collega donna presente a sprazzi all’altro capo della stanza. Zero privacy, tutta una grande famiglia. Gli anni in cui, indipendentemente dalla mia volontà, ho continuato ad assorbire nozioni calcistiche. Conoscevo il nome del portiere dell’Ajax. I sorteggi della Champions. Le regole del fantacalcio. Il colore delle maglie in trasferta.  Obiettivamente troppo oltre il mio basilare interesse. Che poi non ci trovo niente di male ad interessarsi di calcio, il problema sorge quando diventa il solo ed unico interesse. Quando non c’è modo di interagire su argomenti diversi. Mai fregato gran che della moda, ma almeno musica. Cinema. Anche caccia e pesca potevano andare come diversivo.

Ho iniziato ad attendere con ansia ogni evento sportivo che potesse anche vagamente e temporaneamente dirottare l’attenzione dallo Sport Supremo. Ippica. Sci sull’erba. Curling. Pelota. Poteva andar bene uno qualunque. All’ultimo giorno del mercato di riparazione di un’annata particolarmentente densa di eventi e discussioni, non ne potevo più. Mi sono alzata in piedi e ho detto: “Scusate, si potrebbe parlare di topa almeno so di che si tratta e posso dire qualcosa anche io?”.
Le parole sono uscite da sole, e quei pochi secondi se li ricordano ancora tutti. Mi ci hanno presa in giro per un bel po’ di tempo.

E oggi che invece gli spazi sono tornati ad essere vivibili, che non c’è più bisogno di spostare la sedia per far passare il vicino di scrivania, siamo ridotti al fantasma di ciò che eravamo ieri. Box da quattro semivuoti, nel giro di un anno abitati da una sola persona. La mattina. Nel pomeriggio spesso vuoti. Segnali di fumo per parlare con qualcuno. Alle diciotto di ieri, mi sono alzata per prendere un caffè, e in tutta la palazzina eravamo tre: il turnista di presidio in sala server, la guardia all’ingresso, ed io. Non ho più neanche un capo, destinato ad altro incarico al di fuori dell’IT e non ancora sostituito. Anche l’altra donna è stata trasferita, sono rimasta l’unica dello staff tecnico.

E non avrei mai pensato di doverlo dire, ma si, sento la mancanza del calciomercato.

“Miss You” – The Rolling Stones

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Amo il mare

Un reblog di Sognatore Fallito mi ha fatto pensare che il mare e la montagna si amano per ragioni simili.

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Quando è ancora freddo e posso appena bagnare i piedi
Quando piego la testa sotto le onde
Quando mi avvolge e mi solleva come un abbraccio
Quando le onde sul bagnasciuga scavano intorno ai piedi
Quando i raggi del sole penetrano sotto la superficie
Quando nuoto nel blu, solo blu senza fine, blu oltremare
Quando mi tuffo nell’azzurro e nel turchese
Quando le braccia si stancano
Quando mi sdraio nella bassa marea
Quando quando esco dall’acqua con gli occhi rossi
Quando il sale si asciuga sulla pelle
Quando basta uno sguardo, che gli uomini di mare sono di poche parole
Quando mi manca, che il più vicino è a due ore da me
Quando costruivo i castelli di sabbia, e poi aspettavo l’onda più forte che li avrebbe distrutti
Quando la prima immersione nel Mar Rosso è durata solo venti minuti per la troppa agitazione
Quando mia madre mi diceva “esci che hai le mani lesse” e oggi ancora me le guardo
Quando mi perdo dietro ai pesci rischiando di farmi spuntare le branchie come loro
Quando quarant’anni fa ti buttavano in piscina, che non si faceva la scherma o la danza
Quando ho nuotato tra i delfini sfiorandoli con le dita
Quando mi incanto a guardare una stella marina, viva
Quando il respiro non basta per restare sotto quanto vorrei
Quando posso rinunciare al superfluo, che con lui c’è bisogno solo dell’essenziale
Quando a notte fonda ci siamo solo noi e le stelle, ed è caldo e invitante
Quando gli unici rumori sono il vento nelle vele e lo sciabordio delle onde tagliate dallo scafo
Quando dormo nel pozzetto per godere della notte e dell’alba
Quando ti fa capire che il padrone di casa è lui, le regole le detta lui e bisogna portare rispetto
Quando il sole è all’orizzonte, e l’acqua si tinge di riflessi pastello
Quando la luna disegna draghi d’argento sulla superficie nera
Quando smetto di riempire l’SD per riempire gli occhi
Quando di ognuno mi porto a casa la voce per poterla riascoltare
Quando le prime piogge formano quella crosticina bucherellata sulla sabbia
Quando è scuro e in tempesta, e non smetterei mai di guardarlo
Di ascoltarlo
Di respirarlo

E niente musica, solo la sua voce