Dopo diversi anni, sono tornato al mercato che si tiene ogni sabato nella cittadina nella quale vivevo fino ad una ventina d’anni fa. All’improvviso, mentre gironzolo per le bancarelle, mi coglie una botta di malinconia.
Strano come i ricordi, con un niente, ti portino indietro in un whoousshhh…!
Il niente, nello specifico, era il silenzio.
Voci sommesse, ovattate, rapide ed impersonali.
Povera mamma,
quando finalmente si decise a compiere il viaggio fino a quassù, dopo un po’ che m’ero trasferito e stabilizzato in una casa decente (il coinquilino aveva appena abbandonato l’appartamento, merito della sua nuova morosa che ambiva alla privacy di coppia. Fui talmente dispiaciuto che gli echi della festa che intitolai al loro addio riecheggiano ancora nel condominio, a distanza di più di vent’anni) per lei fu un dramma dietro l’altro.
Colpi duri, per una abituata alla periferia romana.
Le settimane precedenti al suo avvento furono pregne di ordine e pulizie maniacali.
Per i miei standard, la casa poteva essere equiparata ad una sala operatoria.
I miei standard, come scoprii in seguito grazie ad una conversazione con la zia erroneamente registrata dalla segreteria telefonica, erano ben al di sotto dei suoi e quindi, suppongo, anche di chiunque avesse dovuto subire un intervento in salotto, o in camera da letto, per non menzionare il bagno e la cucina.
Un giorno volle andare a fare la spesa.
“Dov’è il mercato, qui?”
“Non c’è, o meglio: c’è, ma solo al sabato. Altrimenti, supermercato.”
“Vabbè, allora intanto che aspettiamo sabato, vedo quello che trovo”.
Tornò boccheggiante, paonazza e quasi incapace di proferire verbo.
Beh? Che è successo? Stai male?
Ci…
Ci?
Cin…
Che hai brindato?
Cinque…ilalire…
Cinquemilalire?
Sì…(ma più che un si, fu un sospirone)
e mi porge un sacchetto, con un cespo di lattuga dentro.
Ma ‘ndo sei annata? Mica al negozietto di frutta e verdura? Quello è ‘na gioielleria sotto mentite spoglie.
si… qu… ello…
A ma’! Qui o vai al supermercato, o sei una impellicciata che manda la servitù ad ordinare “le foglioline monofilari di lactuca saliva coltivate su terra a friabilità omogenea ed innaffiamento bilanciato con protobacilli a contaminazione biunivoca” all’ortofrutta “robacara-a-tanto-anzi-a-tantissimo-per-fighetti-locali-ma-vòi-mette…”.
Il sabato successivo, la indirizzo al mercato.
Torna ed è turbata, mostra disagio.
Emmo’? Che è successo a ‘sto giro?
“Ma qui la gente non sceglie? Ero lì che capavo la frutta, quando mi sono accorta di essere sola. Si erano allontanati tutti e mi guardavano in modo strano, mormorando “sta toccando la frutta… a mani nude…”. il tizio del banco è stato gentile, però mi ha detto che ci avrebbe pensato lui… Allora ho chiesto scusa e sono andata via.”.
Scendo in piazza.
Quante volte l’avrò sentito dire, o urlare?
“Me mancano du’ cose, scenno in piazza”.
“Che volete oggi? Sto anna’ in piazza”.
“Elvì, scenno in piazza!”
(Tradotto “Elvira -la comare Elvira, al piano di sopra- esco, li guardi tu ‘sti due?”).
La “piazza” era il mercato quotidiano. Quello che c’è in ogni quartiere di Roma.
Una fila di bancarelle, in realtà carretti di legno con le extension, frammentate alle postazioni fisse, bugigattoli di metallo sollevati e messi in piano sui mattoni.
Tutto assiepato tra il marciapiede e lo spazio solitamente occupato dalle macchine parcheggiate.
Le propaggini del mercato, come tralci di edera, a volte si estendevano alle viuzze perpendicolari, dove trovavi (sigh, ormai sparite) le botteghe tipiche: il norcino, l’orologiaio, il calzolaro.
Per me è sempre stato un luogo magico. Potevi trovare tutto quello che serviva, sia materiale che spirituale.
Le voci, le urla, le offerte, le trattative, i discorsi, gli incontri, l’allegria.
L’allegria, soprattutto.
Ho sempre pensato che il foro, ai tempi dei romani, dovesse essere stato un luogo così.
La “piazza”, dove la spesa era fatta col bilancino per non sforare il budget, la qualità soppesata attentamente, ma dove comunque l’incontro e lo scambio con tutto il quartiere (o, come lo definirebbe Marco Lodoli, l’isola) erano alla base del sistema. Non eri mai solo per davvero. Così come non potevi mai farti, per davvero, gli affari tuoi.
Un abbraccio continuo ma, stranamente, mai asfissiante. Anzi, donava calore.
Rispetto al mercato settimanale dove al massimo potevi chiedere o indicare, dove a regnare erano il silenzio, il vociare sommesso, i gesti contenuti, l’indifferenza degli avventori, soprattutto gli uni con gli altri…
Fu traumatico. Non lo comprendeva.
Nemmeno io, in fondo, l’ho mai compreso. O meglio, mi sono sempre rifiutato di comprenderlo, o di farci l’abitudine.
Chissà cosa diranno, laggiù, adesso, al posto di piazza.
Quanto mi piacerebbe sentirle ancora, quelle parole
“scendo in piazza”.
Ciao ma’.
“Mamy Blue” – Joe Cocker