Mio padre era operaio in acciaieria, mia madre sarta ma aveva smesso di lavorare per occuparsi della famiglia, una sorella che dopo il liceo classico aveva iniziato l’università a Roma e almeno il primo anno voleva star lì.
Io che ero approdata al tecnico-commerciale meglio noto come ragioneria, prototipo della scuola proletaria del periodo, mi ero ritrovata nell’unica classe in cui avevano ammucchiato tutti i figli di papà, i vorreimanonposso del liceo che non sarebbero mai arrivati all’università e dunque meglio un pezzo di carta con 35 e due figure che niente.
Il secondo anno non me lo scorderò mai. 1984, esplode la moda dei Paninari che da Milano era arrivata anche lì. Se non avevi lo zaino dell’Invicta, i 501 con le toppe Naj-Oleari, la felpa Best Company sotto il Moncler e le Timberland ai piedi, non eri nessuno. Io non ce l’avevo e non ero la bella della classe, dunque non ero nessuno. Peggio ancora, ero la secchiona con gli occhiali a cui ci si rivolgeva solo per farsi passare i compiti. E infatti, con la scusa che cade proprio a metà estate, al mio compleanno non veniva mai nessuno della classe. Li odiavo per questo ma dovevo comunque conviverci, e se l’autostima non è la tua dote principale, a quattordici anni si fa presto a finire a terra e a sentirsi meno di zero. Avevo un cotta per un compagno che transitò nella classe solo quell’anno, non era bello ma aveva gli occhi di colore diverso e a me le imperfezioni sono sempre piaciute. Era anche lui uno del branco, con alle spalle una famiglia che poteva permettersi qualunque cosa chiedesse.
Alla festa dei miei diciotto anni nessuno di loro si presentò, un nodo allo stomaco a guardare metà delle sedie rimaste vuote. Oggi mi dico colpa tua che li avevi pure invitati, ma allora non capivo un cazzo di come va la vita, di quello che conta e quello che no.
Ho tagliato i ponti il giorno stesso degli esami, nessuno dei miei amici ha a che fare con la scuola e alle cene che hanno organizzato negli anni a seguire non sono mai andata. Tranne a una, quindici anni dopo. L’ho fatto per vedere come erano diventati, chi aveva fatto strada, chi si era perso.
Li ho ascoltati parlare di case al mare a Villa Rosa e Giulianova, di figli futuri campioni di qualche sport, di carriere in banca, di mobili che non si vendono più come una volta, del rappresentate d’istituto rivisto su un programma alla tivvù e di quella del terzo banco che lo sai, alla fine c’è riuscita a farsi assumere in ospedale e s’è passata tutti i medici del reparto, ma d’altra parte era inevitabile che finisse così .
Li ho guardati come allo zoo si guardano gli animali nati in cattività, rinchiusi in spaziose e confortevoli gabbie. Stanno bene, perché i pinguini non lo sanno che esiste l’oceano, la gazzella non ha mai visto né i leoni e né la savana, e l’orso ha tutti i giorni un secchio pieno di salmoni. Di lupi non ce ne sono mai stati.
Il Moncler non l’ho mai comprato e mai lo comprerò, le Timberland invece si. Anche quest’anno all’inizio di settembre mi faranno venir voglia di chiudere gli occhi per riaprirli che è già metà novembre.
“School” – Supertramp (Paris, 1979)