California Dreamin’ #2

California Dreamin’ #2

Non so come gli sia venuto in mente di scrivere qualcosa sulla California, ma quando me lo ha proposto non ci ho pensato neanche un attimo. Qui sotto il mio pezzo, qua il suo.
Merry Christmas, dear friend, ci si rivede tra qualche giorno.


Tu pensi che L’America sia grande, che gli Stati Uniti siano grandi, è inevitabile. E l’unico continente che conta due, e ogni fotografia pubblicata sulle riviste o sul web restituisce sensazioni di spazio, vastità o densità, tutte elevate a potenza. I rettilinei della Route 66, le pianure del South Dakota, i casinò di Las Vegas, i grattacieli di Manhattan, le formiche umane nella Subway. E anche gli americani che abitano le stanze dei bottoni, son lì per dimostrare al resto del mondo che loro ce l’hanno più grosso.

Poi una sera di fine estate arrivi sopra San Francisco e ti chiedi quasi dov’è. Una nebbia leggera ne avvolge le luci, come se non volesse farsi scoprire subito, e avvicinandoti t’accorgi che è più piccola di Milano. Passi la notte in un hotel dell’aeroporto, e al mattino sei a bordo del pick-up dell’Alamo affittato per dieci giorni. Oltre al volo, è l’unica certezza. Certo la T-Bird di Thelma & Louise sarebbe stata un’altra cosa, ma anche il pick-up ha il suo perché. Te lo immagini con due tavole Bear caricate nel cassone come fosse la vecchia Boonesmobile, e d’altra parte se sei qui è proprio per il surf. Per la locandina di Big Wednesday appesa sopra la scrivania, Point Break, Riding Giants e tutti gli Ocean Film Festival. Per La Filosofia del Surf, Giorni Selvaggi e La Pattuglia dell’Alba. Per i Beach Boys, gli Eagles e Jackson Browne.  Per quella strada che si srotola sulla costa come una lunga onda dalle creste bianche, ora più alte, ora più basse.

Fate un salto a nord, che il Golden Gate e Alcatraz non puoi non vederli, e poi giù, lungo la Pacific Coast Highway. E’ nella wishlist da così tanto, e finalmente ci sei arrivata.
Spotify Connect, play.

Le miglia passano leggere, intervallate dagli stop lungo la strada.
Di sera i motel sulla costa col pick-up parcheggiato di fronte a una corta rampa di scale, le felpe, due Tequila Sunrise sul tavolinetto e i piedi sulla balaustra ad aspettare un tramonto dello stesso colore del liquido nei bicchieri.
Di giorno le spiagge, il sole, i tuffi nell’oceano, i costumi Maui e le gelide bottiglie di Bud seduti nella sabbia.  I bagnini di Zuma sono gli stessi di Baywatch, Venice Beach è un flashback negli anni ’90, bellezze bionde sui rollerblade comprese. Il Big Sur è tanta roba, la Pfeiffer State Beach un gioiello incastonato tra le rocce. Accostate il pick-up sul bordo di una scarpata e ti tremano un po’ le gambe quando t’affacci sul ciglio.

fullsizerender1.jpg

Miglio dopo miglio la striscia blu alla tua destra è una presenza costante, non smetti di fissarla dal finestrino del passeggero. Sei nata di verde e di terra, ma il mare ce l’hai dentro da sempre. Ora lo respiri, lo senti addosso. La pelle che cambia sapore, una leggera patina salata la ricopre, la assaggi nella piega del gomito. A Huntington Beach cominci a vederli, dalla spiaggia e dal Pier. The Wedge è lo spot dei bodysurfers, quelli son davvero dei pazzi scatenati. Prosegui ancora verso sud, Laguna Beach, Dana Point, Trestles. Sul molo di San Diego intravedi Frankie Machine, non può essere lui ma ti piace immaginarlo. Prosegui oltre e li guardi ancora cavalcare le onde, li indovini dentro i tube, li cerchi all’uscita con lo zoom trattenendo il respiro.

Li guardi e pensi a Finnegan, Le onde sono il campo da gioco, il fine ultimo. Pensi a tutti i what if… della tua vita che non sono mai stati e che non potranno mai essere. Pensi a Leonardo Fioravanti, che i suoi what if li ha frantumati con la tavola imparando a surfare sulle quattro onde che il traghetto Olbia-Civitavecchia produce poco prima di entrare in porto alle sette del mattino. Forse ci sarà anche lui a Tokyo, alla prima olimpiade di questo sport da alieni. Pensi che in fondo nella filosofia del surf ti ci ritrovi, il momento importante non è ma ieri o domani, è sempre qui e adesso. E qui e adesso funziona.

Le Saline

Io in California non ci sono mai stata, dunque neanche le fotografie le ho scattate lì, ma è così che lo immagino il mio viaggio sulla PCH.

Neo Induismo

Nuovo esperimento di collaborazione tra le mie fotografie e le parole di un altro blogger, questa volta il racconto è di Andrea Taglio.
Buona lettura!

AndreaTaglio

Raccontino nato dalle foto e l’ispirazione di https://321clic.com/ , che ringrazio tantissimo per la collaborazione e le foto meravigliose!

Sheryl camminava a testa alta, tenendo in braccio i libri e confidando negli amuleti della setta, ma in quella zona della città i teppisti avevano spaccato metodicamente le lampadine dei lampioni per anni, e il buio la metteva a disagio, perciò il passo era veloce.
Non voleva fare brutti incontri – e nel buio non avrebbe potuto vederli arrivare.
Era una bella donna, fiera e combattiva, che aveva dovuto crearsi le proprie occasioni in una società in cui, nonostante tutto, la parità dei sessi era ancora un miraggio lontano.
La rabbia, al solo pensiero delle ingiustizie subite e della paura che tutto sommato il buio le ispirava, la spingevano a camminare ancora più veloce, facendo risuonare ancora più forti i tacchi sul cemento.

Nei mesi precedenti la rottura dell’ennesima relazione e…

View original post 1.399 altre parole

La porta

Questa collaborazione fotografia/parole va oltre i confini di WordPress, il testo è della mia amica Marta, le è piaciuto il gioco e ha voluto partecipare.
Ancora una volta, buona lettura.

La guardai e stava piangendo, non ebbi alcun bisogno di far domande e la cosa mi rese estremamente orgogliosa e forte. Con serenità, rimasi appoggiata al muro sorridendo per infonderle il senso di pace di cui aveva bisogno ed evitando così di metterla in difficoltà.
Due secondi di silenzio poi diventai le parole che iniziai a pronunciare.
«Anche la persona che credi sia la peggiore mai entrata nella tua vita, ha lasciato senza dubbio in te qualcosa di buono per sempre. Che sia una consapevolezza, una nozione, un profumo, una sensazione, un’espressione, un sapore, un brivido, un modo di fare, non importa. Le strade si guardano negli occhi all’incrocio e seppure alla fine prendono direzioni opposte, lì ci sono arrivate allo stesso momento. Apri i tuoi spazi più che puoi e scoprirai che… c’è chi esce con straordinaria eleganza, chi rimane sull’uscio, chi forza la serratura, chi rompe la maniglia, c’è persino chi inciampa sullo zerbino, chi bussa costantemente pur senza ricevere risposta, chi non chiede il permesso, chi è costretto a rimanere alla finestra, chi ha la chiave ma non la sa girare, chi varca la soglia senza accendere la luce, chi passeggia freneticamente senza mai decidersi ad entrare, chi sfonda l’ingresso e ruba un po’ di te lasciando le sue impronte per sempre, chi fa passare un soffio d’aria fresca e poi chiude senza fare rumore, ma anche chi scalda l’ambiente poi fa un gran casino quando esce di scena.
Poi c’è, c’è lui: quello che bussa con la mano sinistra perché nella destra ha una sorpresa per te, che non decide cosa fare della serata ma invita, che ti scatta una foto anche se hai l’asciugamano in testa e gli occhi gonfi perché ti trova bella sempre e comunque, quello che se l’imprevisto è davvero spiacevole ha la forza di dire che poteva andare peggio, lui che non ha paura di un tuffo nel lago, né di onde di mare, rocce da scalare, elastici e corde per sfidare il vuoto, lui che ti asseconda, ti stimola, ti protegge…
L’unico che sa quando è il momento di entrare e come farlo, il solo che non gira la chiave per serrarti la fuga, ma ti lascia libera di andare quando vuoi. È lo stesso che quando alla sera rientri e chiudi la porta dietro di te godi persino del suono delle chiavi perché sei serena e quello è il segno che ognuno, nella sua personale indipendenza ma con un valore aggiunto, ha concluso un’altra giornata appagante. Figlia mia, non accontentarti mai, non vivere nell’illusione che ci sia la tua metà. Tu sei già perfetta così. Se non senti amplificate le tue sensazioni più belle, se quel tuo lato euforico si va spegnendo, se le tue mani non sudano e smetti di stupirti dell’arcobaleno, riapri la porta e lascialo andare per sempre…».
Fui sin troppo poetica ma funzionò e la vidi reagire esattamente come avrei fatto io: si asciugò le lacrime e riprese a sognare.

“Quello Che” – 99 Posse

Aggiungo una piccola nota: ieri sera ho scritto un post nell’altro blog, a proposito del rispetto delle idee altrui e della necessità di avere i propri spazi. Oggi Marta mi manda questo testo, che a un certo punto dice che “…ognuno, nella sua personale indipendenza ma con un valore aggiunto, ha concluso un’altra giornata appagante”.
Nessuna delle due aveva letto prima quanto scritto dall’altra.

La punta di diamante

Un post speciale… A questa mia fotografia ci tengo parecchio, e il racconto di metalupo mi è piaciuto tantissimo.
La musica, spero di averla centrata.
Buona lettura.

 

“The Negative One” – Slipknot

There is no dark side of the Moon really
As a matter of fact it’s all dark

L’entità cibernetica decise in un nanosecondo che era tempo.
Seguendo le precise direttive del COM.FLEET.CRON. il supremo comando di flotta spazio-tempo, scritte, si diceva, di proprio pugno dall’Arconte; creò un impulso elettrico corticale lungo il sistema nevrasse del mio corpo, mantenuto in stasi criogenica da centoventi gigacicli.
Il risultato fu un baratro violento di terrore e dolore fisico che mi catapultò nella realtà intrisa di led del ponte di comando.
Il guscio in vibro-schiuma biologica si spaccò in due parti appena prima che annegassi nel vomito, schizzi di soluzione proteica invasero l’asettica tranquillità della cabina.
Subito due synth si affrettarono a ripulire il lordume estroflettendo proboscidi carnose.
Mi domandai cosa facessero durante il nostro sonno, scacciai dalla mente immagini di accoppiamenti synth per la durata del viaggio.
Mi recai con passo malfermo alla cabina di turbinazione, era la parte che odiavo di più, ero sicuro che Sillax avesse inserito questa procedura per torturare gli equipaggi senza una reale necessità.
Aghi stimolatori avrebbero ottenuto il medesimo effetto.
Impostai il codice, l’occhio rosso di L.E.A.H. mi studiava dal momento stesso in cui mi ero sollevato sulle gambe.
Ma non avevo ancora intenzione di parlarle, non ancora.
Indossai la maschera protettiva e il ciclo ebbe inizio.
Miliardi di microsfere in diossido di carbonio iniziarono a bersagliare i muscoli addormentati, a una pressione media di dodici bar le sfere riattivarono violentemente la circolazione operando una sorta di feroce massaggio terminale.
Urlai dal dolore e tenni duro, strinsi i pugni fino a conficcare le unghie nei palmi, poi, quando fui sicuro che sarei morto per lo shock cardiaco il tutto ebbe fine.
Getti di aria calda mi asciugarono, indossai la divisa nera della flotta, le mostrine di comandante temporale mandarono bagliori minacciosi sotto le luci fioche.
L’entità cibernetica decise autonomamente che ne aveva avuto abbastanza del mio silenzio.
– Buongiorno comandante Harkonnen, possa l’era del sentiero illuminato rendere facile il suo cammino.
Soffocai un grugnito al saluto rituale, non ero per niente in vena di saluti, non dopo il bombardamento a cui ero stato sottoposto.
– Buongiorno a te L.E.A.H.
Provai a mantenere un tono distaccato, non servì.
– Comandante registro uno stress emotivo oltre i livelli consentiti dal comando di flotta, secondo la procedura dovrei inviare un meta-allarme di primo livello all’ammiragliato.
Questa volta mi prese male sul serio.
– Operativo Delta, comandante Lucius Harkonnen, questo è un ordine bypass diretto. Tu annullerai qualsiasi comunicazione riguardo stress emotivo del sottoscritto. Sono stato abbastanza chiaro?
Rientrò nei ranghi immediatamente.
– Certo comandante, sia sempre lode all’impero.
Fottuta macchina.
Sedetti ai comandi, la plancia riconobbe il DNA e si animò in pochi secondi, i sensori iniziarono un’esplorazione a medio raggio, sulla sinistra al centro di un olo-hud sospeso a mezz’aria lo scroll dei dati bio confermò una condizione fisica ottimale.
L’equipaggio dormiva il sonno giusto dei dominatori.
Mi alzai mentre al centro della plancia i vari schermi si animavano scaricando i dati, a breve avrei iniziato la procedura di risveglio dei settemila conquistatori che riposavano nella pancia della corazzata.
Oltre la linea tenue dell’orizzonte spaziale, un’immensa palla blu occupava la visuale.
Eravamo venuti per il pianeta.
Avremmo preso il pianeta.
Avremmo conquistato, massacrato, polverizzato qualsiasi resistenza.
Eravamo la punta di lancia di un sistema perfetto.
Corazzata cronospaziale Totka_II
Apparire all’improvviso dal multiverso, invadere, predare, sottomettere, questo era ciò che l’impero ci aveva insegnato, per una gloria senza fine, senza ostacoli, senza confini.
E io ne ero la punta di diamante.
Soffocai un brivido di pura eccitazione sessuale.
I sensori rilevarono vita, città, villaggi, quasi completa assenza di un sistema di difesa.
I sensori non fecero che confermare quello che lo spionaggio militare ci aveva rivelato da cicli interi.
Parlò ancora, un tono lento, distaccato, mi diede immediatamente sui nervi.
– Comandante gli ordini impongono l’inizio della procedura di risveglio del primo ufficiale e del commissario IAS, posso procedere?
Secco quanto basta, autoritario quanto basta.
– Non farai niente di tutto questo, effettueremo un completo rendez-vous di risveglio dopo l’atterraggio sul pianeta.
I tempi di reazione sulla risposta si stavano abbreviando, il chip senziente regalò un improvviso tono semi-isterico.
– Comandante è mio dovere informare che questa costituisce una gravissima violazione della quarta direttiva sulla navigazione, devo insistere, il risveglio dei due ufficiali è di primaria importanza per la navigazione e l’analisi dei dati trasmessi dai sensori, le pene per questo tipo di ammutinamento sono…
Non la feci finire.
– Da questo momento parlerai solo se interpellata, o in caso di emergenza livello uno, questo è il secondo ordine bypass Operativo Delta che ti impartisco, fai in modo che non ce ne sia bisogno di un terzo.
Si ritirò in buon ordine.
– Ricevuto comandante.
Il piccolo scontro mi aveva messo addosso un frenesia nuova, avevo deciso d’infrangere le regole per un motivo semplicissimo, avrei operato il primo devastante colpo di maglio sul pianeta in completa solitudine, sarei atterrato sulle macerie di una città e successivamente avrei svegliato tutti per godermi gloria e onore.
Che provassero pure a farmi rapporto dopo lo sbarco trionfale, all’ammiragliato avrebbero riso loro in faccia.
Mi accomodai sulla poltrona neurale di comando, le fibre molecolari s’innestarono attraverso il jack craniale, una possente consapevolezza pervase il mio corpo, i miei occhi divennero gli occhi della nave, attraverso i sensori vidi e seppi il mio trionfo.
Piccoli centri urbani abitati da rozzi primitivi, nessuna arma, sottosuolo ricchissimo di metalli preziosi.
Impartii velocemente un ordine di rotta d’intercettazione, un breve count-down segnalò l’accensione dei propulsori di spinta, tempo previsto per la quota di fuoco, otto microcicli.
Mi concentrai sulle coordinate del bersaglio, scelsi una città di media grandezza, l’eccitazione crebbe rapidamente quando dovetti immaginare la frequenza delle prime scariche di particelle.
Il count-down segnalò la posizione, chiusi gli occhi visualizzando nella mente la sequenza di tiro.
Poi lo feci.
La nave ebbe un fremito mentre l’energia fluiva attraverso il reattore di condensazione, un attimo prima che il fascio impattasse sulla superficie feci quello che facevo sempre prima dell’invasione.
Immaginai le urla.
Assaporai la distruzione.
Per la gloria degli Harkonnen.
Avevo colpito.
Era ora di chiudere il cerchio della conquista.
– L.E.A.H.
– Comandante.
– Zona di atterraggio ai margini della città, iniziare procedura di risveglio intero equipaggio.
Appena una perturbazione?
– Confermo comandante, zona individuata, apparentemente non ci sono superstiti tra la popolazione.
Trattenni un ghigno feroce.
– Meglio così, i prigionieri sono un’inutile seccatura.
La massa enorme della nave oscurò la stella che riscaldava il pianeta.
La massa nera bucò la densa atmosfera facendo ruggire gli ipersostentatori, lasciando liberi gli aerofreni, un immenso coleottero in planata, le ali membranose sfoderate lungo la fiancata.
Toccammo terra in un tripudio di fiamme e polvere sospesa, all’interno della plancia i biosistemi si animarono all’unisono, il mio equipaggio stava per assistere al trionfo della casata.
Le immagini rimandate dall’esterno raccontarono la distruzione e la morte, l’impero aveva una sola parola, un solo credo.
La conquista.
– Comandante.
Trasalii alla voce.
– Tu osi infrangere…
Non riuscii a proseguire.
– Questo è un allarme di livello uno, comandante Harkonnen. Ho il dovere d’informarla che il centro controllo cibernetico è compromesso. L’intero sistema, la mia memoria e la gestione della nave sono compromessi.
Balbettai.
– Ma chi, come?!
– Una proteina virus ribelle impiantata nel sistema comandante, mi viene permesso di rivolgerle queste parole solo per un unico motivo.
Crollai sulla poltrona di comando.
– Quale?
La voce gelida oltre ogni limite, forse solo una traccia di scherno.
– L’impero ha i cicli contati, la rivolta è prossima come un vento solare. Uomini come lei non hanno più futuro, la vostra malvagia bramosia di potere, la pretesa di piegare lo spazio-tempo ai vostri voleri, tutto questo verrà spazzato via. La distruzione dell’ammiraglia sarà il segnale della rinascita.
Non riuscivo a capire, distruzione? Di cosa diavolo stava parlando quella voce all’interno del sistema.
Poi osservai, poi vidi.
I giganteschi schermi guida rimandarono l’immagine di una strana vibrazione nelle immagini, le rovine della città lungo la valle lasciarono il posto a un luogo cupo e tetro, buio di luce riflessa dalle esplosioni.
Un inganno.
Un semplice inganno.
Era bastato penetrare i sensori, ritrasmettere dati corrotti.
Il mondo blu non esisteva, non era mai esistito.
La nave poggiava al centro di una placca lavica in movimento, sullo sfondo centinaia di vulcani eruttavano assieme nell’atmosfera densa di polveri e gas venefici in sospensione.
Cupe detonazioni accompagnavano la danza della lava sulla superficie, il cielo nero come la morte era striato di saette, fiumi di roccia fusa si avvicinavano alla corazzata, due camini si aprirono eruttando a pochissima distanza dalla fiancata.
Improvvisamente la nave tremò inclinandosi di qualche grado, niente avrebbe potuto resistere all’attacco di simili temperature, nemmeno la biolega di cui era composta l’ammiraglia.
Preso dal panico tentai di attivare i motori ma la lava aveva già invaso i compartimenti esterni e rapidamente si stava scavando una via verso le parti interne dello scafo.
L’equipaggio sarebbe passato senza rendersi conto dal criosonno all’orrenda ferocia della carni bruciate in pochissimi microcicli.
Caddi in ginocchio mentre le immagini degli immensi vulcani fiammeggianti mi torturava le retine.
Proprio in quel momento, L.E.A.H. parlò per l’ultima volta.
– Povero idiota, povero stupido idiota, ci hai uccisi tutti.

N.d.A

Ho preso in prestito dall’immortale capolavoro “Dune” di Frank Herbert il nome della casata Harkonnen per un semplice motivo, se devo immaginare un figlio di puttana non so pensare a un nome migliore.

Trovato

Quarto capitolo della serie “Collaborazioni”, che a questo punto mi sembra abbastanza collaudata. Il racconto è di Wish aka Max.
Sulla riva

“Private Investigations” – Dire Straits

Lo avevo trovato, finalmente. Gli avevo dato la caccia dappertutto, in Italia e in Europa, senza mai riuscire ad acchiapparlo. Ma questa sembrava proprio la volta buona.
Era un incarico strano, questo, e mi ci ero accanito anche per questo. Di solito non accetto di lavorare coi privati. Preferisco un mandato proveniente da professionisti del settore, criminalità organizzata, ma anche delinquenti di basso profilo. I privati sono sempre un casino, ci mettono dentro le emozioni, quasi sempre sono mariti cornuti che vogliono far fuori non la moglie, ma l’amante. Insomma sono un professionista, non mi metto coi dilettanti. Faccio lavori puliti, nessun coinvolgimento emotivo, nessuna traccia, nessun riferimento ai miei clienti. Certo, sui giornali di solito il giorno dopo si parla di “regolamenti di conti”, di “probabili mandanti”, ma non c’e mai nulla di acclarato.
Lavoro con metodo, con una attenta e accurata pianificazione. Studio le caratteristiche del soggetto meticolosamente. Per prima cosa facendo una dettagliata intervista al mio cliente, iniziando a mettere giù una scheda di massima, con caratteristiche, abitudini, luoghi frequentati. Poi cerco su Internet. Ho amici hacker che mi hanno fornito una serie di software spia che mi consentono di accedere a informazioni riservate, un pot-pourri di applicazioni per intrufolarsi nei dati dello Stato. Se il soggetto ha uno smartphone, gli sparo dentro un virus con un’app che mi indica la sua posizione GPS in qualunque momento. Ricorro agli appostamenti solo come ultima risorsa, e solo se strettamente necessario. Di solito, mi basta un incontro “casuale” con il soggetto, per osservarlo bene e memorizzare le caratteristiche salienti.

Un giorno era venuto da me un padre disperato. Lo mandava un amico di un amico di un amico, una lunga catena di conoscenze che alla fine lo aveva portato a me. Gli avevo detto che non lavoravo coi privati. Anzi in prima istanza gli avevo detto che aveva preso un grosso granchio, che io ero un agente assicurativo, e anzi per chi mi aveva preso. Mi aveva risposto di consentirgli soltanto di raccontarmi la sua storia, e poi se io non avessi accettato di occuparmi della faccenda si sarebbe ritirato in buon ordine. Mi aveva raccontato del figlio dodicenne, di quando lo avevano trovato morto, di come lo avevano violentato e torturato. E mi aveva raccontato delle foto, del video snuff. E poi mi aveva detto che c’era questo regista snuff che pagava per avere i bambini, che pagava i torturatori e pagava chi alla fine li ammazzava. E mi aveva dato gli atti del processo, nel quale, nonostante gli indizi schiaccianti, il porco era stato assolto per insufficienza di prove. Una serie di cavilli giuridici che non avevano reso ammissibili alcune prove, un avvocato tosto, e alla fine lo avevano lasciato andare. Aveva con sé un tablet, mi ha fatto vedere alcune foto. Me ne sono bastate tre. Non ho voluto vedere il video. Ho detto che ci avrei pensato. L’ho accompagnato alla porta, e quando si è girato per stringermi la mano e mi ha guardato negli occhi gli ho detto che andava bene. Accettavo. Avrei fatto il lavoro.

E ho iniziato come al solito. Ovviamente il mio cliente poteva dirmi poco del soggetto, visto che lo conosceva solo per via degli atti del processo. Così sono entrato nella banca dati del tribunale, e scartabellando tra i verbali di indagine di Polizia e Carabinieri ho scoperto che i soldi veri li faceva con Internet. Aveva un sito in abbonamento con pagamenti con carta di credito effettuati mediante un server anonimo alle Cayman, che cambiava dominio e indirizzo ogni pochi giorni. L’accesso era criptato con algoritmi di ultima generazione, quindi anche monitorando il traffico non si sarebbe arrivati a niente. Insomma, era uno che di informatica ne capiva, e anche parecchio. E infatti non mi era riuscito di trovare il suo telefono.

Ero andato ad appostarmi sotto casa sua, e dopo un po’ di tempo avevo accumulato qualche scarna informazione. Ero lì lì pronto per agire quando mi era sparito dal giorno alla notte. Avevo chiamato il mio cliente, che mi aveva detto che lo aveva incontrato e gli aveva detto che aveva assoldato un professionista. Ecco perché non lavoro coi privati. Finiscono sempre per combinare qualche casino.

Un amico in polizia alla fine mi aveva fornito il suo numero, e gli avevo piazzato dentro la mia app per la rilevazione GPS. Il problema vero è che l’app funzionava solo quando il telefono era acceso, e lui lo teneva quasi sempre spento. Era iniziata la caccia, da Roma siamo andati a Milano, poi a Venezia, Torino, Firenze, Napoli, Palermo, Düsseldorf, Londra, Bruxelles, Parigi, e non ricordo neanche tutte le tappe. Erano tre mesi che giravo a vuoto come un pollo senza testa. Alla fine eravamo tornati a Roma, e aveva per l’ennesima volta spento il telefono. Era domenica, faceva un caldo torrido. Avevo pranzato, e col condizionatore acceso ero andato a fare una pennichella. Improvvisamente la mia app di controllo si mise a suonare, svegliandomi di soprassalto. Aveva riacceso il telefono, e sembrava si stesse muovendo in auto. Mi vestii e presi quel che serviva, senza dimenticare la mia fidata Glock con silenziatore.

Mi misi in auto e vidi che si dirigeva verso Civitavecchia. Guidai come un forsennato, mentre lui si dirigeva verso Viterbo prima, poi Montefiascone, e infine Bolsena. Il telefono continuava ad essere acceso, e indicava un punto sulla strada. Continuai a seguire la mappa, e arrivai ad un bar da cui si vedeva il lago. Parcheggiai e tornai verso il punto indicato dalla mappa a piedi, mettendo al massimo l’ingrandimento. Il punto era al di fuori del bar, c’era un unico avventore. Era il tramonto, la vista del lago era incantevole. In lontananza, le luci delle case sulla riva opposta, e una pallina di fuoco poco sopra l’orizzonte stava tramontando. L’uomo mi dava le spalle, aveva un cappello in testa ed un giaccone. Sedeva ad un tavolino sul quale c’era un vassoio con due birre e due bicchieri. Mi nascosi, pensando che avesse appuntamento con qualcuno. Stetti lì ad aspettare, il sole era tramontato ed era buio. L’uomo rimaneva immobile, apparentemente guardando nel vuoto. Venne il cameriere, a dirgli che stavano chiudendo, lui fece sì con la testa e il cameriere portò via il vassoio, le birre e i bicchieri. Il bar chiuse. Uscii dal nascondiglio e mi avvicinai silenziosamente, sino ad arrivare alle sue spalle.

  • Ti aspettavo, mormorò.
  • Non voltarti.
  • Era ora che arrivassi, non ne posso più di averti alle calcagna. Fai quello che devi fare, ma fai in fretta.
  • Ti piacerebbe, ringhiai.

Tirai fuori l’arma che avrei voluto usare con lui sin dall’inizio. Due maniglie di legno con una corda di pianoforte in mezzo. Una garrota artigianale, ma molto più efficace.
Gliela passai attorno al collo con un unico gesto e iniziai a stringere. Tentò di alzarsi in piedi, strinsi di più mentre gli sibilai nell’orecchio: – Sta a te decidere, stai buono e durerà poco, fai resistenza e restiamo qui sino a domattina. Si lasciò ricadere sulla sedia, portando solo le mani al collo. Strinsi ancora un po’. Gli mancava l’aria. Allentai la presa, fino a sentire il suo respiro. Più che un respiro era un rantolo. Strinsi di nuovo, iniziò ad agitare le mani, apriva e chiudeva la bocca tentando di ingoiare aria. Allentai. Non potevo vederlo, ma ero certo avesse il viso paonazzo. Strinsi forte ora. Iniziò a dibattersi come una farfalla impazzita, sembrava Priss in Blade Runner. Agitava la testa di lato, mimando un no, e ancora aprendo e chiudendo la bocca. I piedi battevano sul pavimento. Continuai a stringere sino a quando non smise di dibattersi, e mantenni stretto ancora un po’, per sicurezza.
Verificai che l’incrocio della corda fosse posizionato bene.
Allargai le braccia, e contemporaneamente feci un salto all’indietro. La testa si staccò di netto dal corpo, e dal collo uscì un fiotto di sangue. Ero stato bravo. Neanche una goccia mi aveva macchiato.

Ultima Alba

Con le collaborazioni ci abbiamo preso gusto, il racconto stavolta è di metalupo, e anche la musica è un’idea sua, ci sta proprio bene.

Vik

“Shine On You Crazy Diamond (Part I-III)” – Pink Floyd

Vik, Suðurland region
Iceland

Adesso

L’uomo del tempo osserva il relitto adagiato sulla sabbia nera.
Osserva le orbite scavate dai traccianti blindati, i resti della carlinga corrosa dalla salsedine, quello che rimane del DC3 Dakota, uno scheletro abbandonato in riva all’oceano.
L’uomo del tempo lo sa ed è per questo che lo chiamano così, concede un’altra veloce occhiata all’aereo, alla distesa di corpi umani scomposti, aggrovigliati in pose innaturali, violati all’essenza stessa della carne.
Lui lo sa.
Il tempo vince sempre.

La notte prima

Vikingasveitin.
Fantasmi in evaporazione sistematica, all’origine la perfezione del combattimento urbano, squadre SWAT, special weapons and tactics, ora qualcosa di molto oltre portato al limite nelle dure lande desolate del grande inferno bianco.
Addestrati in Norvegia, di base ad Akureyri, controterrorismo, sabotaggio navale in ambiente artico, lanci HALO direttamente sul pack, tiro di precisione in alti venti a temperature polari.
I Vichinghi della squadra Bravo hanno freon che circola nelle vene, sono perfettamente consci di far parte di una ristrettissima élite di soldati professionisti, sono altrettanto consci che forse, questa notte, potrà non bastare.
Olafur Arnarsson è il majuri della squadra, il secondo nella catena di comando.
A trentadue anni è considerato un veterano, ha combattuto, si è addestrato con le migliori forze speciali del mondo, impugna un Armalite M307 fasato plasma, ottanta dardi caseless nel caricatore a spinta magnetica del fucile d’assalto, eppure le sue mani non smettono di tremare.
Eppure quello che osserva attraverso il visore starlight gli congela il respiro in una morsa d’acciaio.
I corpi avanzano ancora.
– Signore.
Un fiato livido, perturbazione nelle molecole.
– Li ho visti Olafur.
Generale di brigata Einar Ragnarsson, comandante dei Vikingasveitin, quarantasette anni, fisico asciutto, gli occhi azzurri del generale sembrano mandare lampi infuocati attraverso la tinta mimetica bianca che gli stravolge i lineamenti.
L’uomo del tempo osserva il cronografo militare ancorato al polso sinistro, diciassette minuti esatti, i corpi si rialzano dopo diciassette stramaledetti minuti.
Il tempo di ricaricare le armi.
Tutte le armi.
Ragnarsson scandisce da una settimana i tempi della squadra, da quando la follia ha invaso la sua terra, da quando il respiro dello Strokkur, forse il più famoso geyser islandese, ha liberato nell’aria qualcosa.
Qualcosa emerso dalle profondità della terra, qualcosa di aerobico che si è sparso rapidamente nell’atmosfera mutando per sempre la vita dell’isola dei vulcani.
Probabilmente mutando per sempre l’intero percorso dell’umanità.
Rientrati dal Galles in fretta e furia dopo un’allerta generale diramata dallo stato maggiore di Reykjavik, gli specialisti dello squadrone Bravo hanno intrapreso il cammino dell’incubo senza fine.
Nel 2024 l’Islanda conta una popolazione di circa quattrocentomila unità, le stime di quello che resta del governo centrale parlano di un contagio allargato al sessanta per cento degli islandesi.
Uomini, donne, bambini trasformati in macchine di morte.
Sete di sangue, fame di carne.
Carne umana.
Einar rabbrividisce sotto la tenuta artica da combattimento, in quei diciassette minuti hanno tentato di tutto, granate a frammentazione, armi da fuoco, esplosivi, asce, mani nude.
I corpi smembrati sembrano dotati di una memoria selettiva che permette alle cellule una sorta di rigenerazione spontanea.
La carne si ricompone con calma, con pazienza, la carne si rialza e pretende.
Olafur, di nuovo.
– Signore, cento metri.
Il generale, chiude la mano destra attorno all’impugnatura della pistola da combattimento, fa scattare il perno di armamento del percussore e osserva il cielo stellato respirando a fondo l’aria tersa.

Adesso

Sedici minuti e cinquantanove.
Qualcuno, chiuso in un laboratorio da qualche parte, sotto metri di roccia, gli occhi incollati a un microscopio.
Qualcuno ha sintetizzato una cura.
I primi vaccini vengono inviati in fretta e furia per essere diffusi nell’atmosfera dell’isola, spediti con un vecchio aereo militare in gran segreto, spediti con un team di scienziati pronti a tutto.
Grosso errore.
Nessuna ha calcolato la potenza del virus, la velocità, la resistenza in alta quota.
Il generale passa le dita sul relitto nerastro, attraverso le orbite vuote le creste spumose del mare si frangono lungo la spiaggia nera.
Dodici minuti.
I corpi fremono, sangue e carne si mischiano alla sabbia vulcanica, i copri si preparano ancora una volta.
Otto minuti.
Einar lo sa, lui è l’uomo del tempo, sa quanto manca.
La decisione è stata presa lontano da loro, uomini seduti a una scrivania sorseggiando caffè tiepido in maniche di camicia hanno deciso per loro.
Hanno deciso per TUTTI loro.
Quattro minuti.
In lontananza il rombo del bombardiere strategico si fa più vicino, Einar stacca il respiratore NBC, si leva la maschera dalla faccia e inspira a fondo l’odore di salsedine per l’ultima volta, i gabbiani sembrano salutare la squadra Bravo con le loro urla.
Due minuti.
I primi cadaveri si rialzano sui gomiti corrosi, occhi vuoti, crani deformati dagli impatti.
Einar sorride.
Tempo zero.
Luce.

The Pit

Secondo esperimento di collaborazione tra me Zeus, io scelgo una mia fotografia, lui ci costruisce sopra una storia.

The Pit

“Spy Movie” – Paolo Spaccamonti

– Come pensa di uscirne?

La voce della donna era gravida di paura. Gli occhi, di un marrone striato di verde chiaro, rimbalzavano in maniera ossessiva fra l’uomo di fronte a lei e quella macchia luminosa alla fine del pozzo nero.

– Una soluzione mi verrà in mente, darling.

L’uomo si stupì del pesante accento scozzese che aveva infettato l’ultima parola. Non aveva più parlato nel suo dialetto da… non si ricordava più. A forza di essere in giro per il mondo, casa sua era un posto distante più nei sentimenti che nei chilometri.

– Forse sarebbe meglio pensarci. Non so quanta luce ci rimarrà e, sinceramente, non voglio rimanere qua per la notte. Questo posto mi terrorizza.

– Bisogna aspettare…– mentre lo diceva, l’uomo si riassettò i polsini della camicia Brooksfield color carta da zucchero. Guardò con malcelato disgusto, subito sostituito dalla sensazione di inevitabilità, la sporcizia che imbrattava il completo Pal Zileri e le scarpe di cuoio italiano. Scosse la testa, mentre inumidiva la punta di un fazzoletto di seta bianca e rimuoveva, con piccoli movimenti concentrici, le macchie di fango sulle scarpe.

– Aspettare cosa? – La voce della donna si alzò di un’ottava sulla spinta di una crescente agitazione, prima di ricomporsi ed affermare in maniera sarcastica – Vuole che Le porti anche qualcosa da bere nel mentre? Che ne so, un martini con l’oliva? –

L’uomo la guardò di sottecchi mentre appoggiava la seconda scarpa su uno dei massi alla base del pozzo e riprendeva l’attività di pulizia. Gli scappò un sorriso appena accennato, mentre le disse: – Non siamo mica al cinema, ma se riuscisse a trovarmi un whisky non ne farei un dramma – ritornò a concentrarsi sulla pulizia delle scarpe – Le consiglio di rilassarsi, Mrs. Whitmore, l’attesa potrebbe essere più lunga del previsto. Provi a dormire un po’, potrebbero servire delle ore prima di uscire.

– Dormire? Delle ore? – La voce di Mrs. Whitmore era quasi strozzata, mentre con un sopracciglio alzato ed i pugni appoggiati a fianchi guardava l’uomo che l’aveva appena salvata dai suoi rapitori pulirsi in maniera religiosa del fango dalle scarpe di cuoio scuro. Senza pensarci si massaggiò i polsi dove poche ore prima c’erano le catene della sua prigionia. Ironia della sorte, pensò la donna, non sapere neanche chi ringraziare.
Come in risposta ad una preghiera non detta, una figura apparve sul bordo del pozzo gettando un’ombra sulle facce dei due prigionieri.

James! Si trova laggiù? – Era una voce femminile, di una donna matura e abituata a comandare.

L’uomo col vestito elegante, James, smise di lucidarsi le scarpe e, sorridendo sornione, le disse – Forse ho esagerato un po’ con le tempistiche… – poi, alzando lo sguardo e coprendosi gli occhi con il palmo della mano, disse rivolto all’ombra – Sì, avevo prenotato il bad & breakfast all’angolo per la Signora ed il sottoscritto, ma hanno fatto confusione con le prenotazioni e siamo dovuti venire qua…– James guardò di nuovo Mrs. Whitmore facendole l’occhiolino.

Non faccia lo spiritoso, Agente. Non vorrei essere costretta a lasciarla giù. Sa che non mi dispiacerebbe liberarmi di una rottura come lei…

– Non mi lamenterei di sicuro, ma’am, vista la graziosa compagnia. Ma penso che questa bella signora voglia tornare a casa… e io non vedo l’ora di tirarmi via da questo fango e andare a bermi un whisky con ghiaccio. Pensa di farci salire, adesso?

Quando la cima della fune arrivò in fondo al pozzo, James la aiutò a legarsi e ad issarsi verso l’uscita. Mentre saliva sbirciò giù e vide che l’uomo che l’aveva salvata la stava guardando sorridendo.

– Ma lei chi è? – Gli gridò di rimando.

– Ma lei sa chi sono, Mrs. Whitmore, io sono…

La voce si perse coperta dalle manovre d’atterraggio di un grosso elicottero di salvataggio.

La bambolina giapponese

Qualche giorno fa ho letto questo post di Zeus, e ne condivido il contenuto. Non avevo però mai preso in considerazione materialmente l’idea della collaborazione. Abbiamo fatto un primo tentativo, io ho scelto una mia fotografia, lui ci ha costruito sopra una storia, e questo è il risultato.

La bambolina giapponese

“Don’t get me wrong” – The Pretenders

<<Lo sapevi che prima o poi doveva succedere>>.  La voce di Naoki  Mooreland era un rombo sordo fra le gote contratte.
<<Pensavo che…>>  Kimiko Logan non sapeva, in realtà, come concludere quella frase.
L’aria del Mama’s, uno dei locali più In di S. Francisco, era pregna del profumo dei pancake e di Smuckers.  In sottofondo si sentiva il bacon sfrigolare sulla piastra e l’odore pungente del grasso fuso si univa all’aroma del cheddar sciolto nei toast.
La radio, 98,5 KFOX, stave trasmettendo Don’t Get Me Wrong dei The Pretenders.
Kimiko era seduta di fronte al suo ragazzo, Naoki. Si erano conosciuti anni prima grazie ad amici comuni. L’amicizia distratta non tardò molto a diventare prima affetto, e poi amore.
Seduta ad uno dei tavolini di legno del locale, Kimiko guardava, attraverso la zazzera bruna della frangia, quello che era il suo ragazzo da quattro anni. Lo vedeva appoggiato allo schienale della sedia, con gli occhi tristi, mentre si torturava l’interno del labbro inferiore con i denti.
Negli ultimi tempi qualcosa si era messo fra di loro: più che una presenza, un’assenza. Qualcosa mancava e ingombrava lo spazio più del tavolo che avevano di fronte. Un sentimento che pesava sulle tazze di caffè bollente e sulle scodelle della macedonia di frutta.
<<Potremmo tentare anche a distanza….>>  Kimiko sputò fuori le parole <<…ci sono tanti modi…>>.
Lo sguardo di Naoki bloccò la ragazza.
<<Adesso vado>> le disse <<ma tu non mi guarderai allontanarmi. Promettimelo.>> . Mentre parlava, Naoki teneva la testa incassata nelle spalle e lo sguardo basso.
Kimiko sentì affiorare una domanda sulle labbra, ma vi morì in fasce.
Naoki prese la mano di Kimiko fra le sue. Lei sentì la pressione di un oggetto sul palmo mentre il ragazzo, con delicatezza, le richiudeva le dita attorno ad esso. Fatto questo, se ne andò.
Kimiko aprì la mano e vide, con gli occhi gonfi di lacrime, una piccola bambolina di legno.
Strano come si sentisse come lei, pensò Kimiko. Strano come si sentisse da sola in mezzo a così tanta gente.