I ragazzini di oggi hanno una programmazione da professionisti, non ce n’è quasi nessuno che non pratichi almeno un paio sport di cui uno agonisticamente. Calcio ça va sans dire, ma anche basket, scherma, badminton, pallavolo. È una buona cosa, imparano a stare insieme, gestire le emozioni, lavorare per un obiettivo comune rinunciando a un po’ di individualità, sempre che i genitori non esagerino con le pressioni. Io vengo da una famiglia operaia di una città operaia, bicicletta e pattini sotto casa erano più che sufficienti come training giornaliero, finché non si scoprì che come tutti quelli della mia generazione, anche io avevo la scoliosi e i piedi storti.
Quindi, nuoto correttivo e scarpe ortopediche, salvo poi scoprire vent’anni dopo che i piedi erano ancora storti e il nuoto non era lo sport più adatto per correggere il difetto. Nuotare però mi piaceva, nonostante la tortura della cuffia di plastica e la ginnastica sulle gradinate di cemento, e all’uscita tendevo l’orecchio per ascoltare i rimbalzi della palla e lo stridere delle scarpe sul parquet del basket. Non potevo fermarmi a guardare, ma sapevo che lì dentro c’era una squadra.
Degli sport praticati alle medie ho un ricordo fastidioso. Si andava al Campo Scuola a fare atletica, e a me che da adulta sforo di poco il metro e mezzo l’insegnante faceva fare corsa agli ostacoli e salto in alto con l’asta posata alla stessa misura delle compagne più alte. Oggi sarebbe qualificato come bullismo se non mobbing. Alle superiori l’unico sport femminile era la pallavolo, si aspettavano che al primo anno fossimo già capaci e qualcuna lo era davvero. Nessuno m’ha insegnato e non ho mai giocato.
Io e lo sport ci siamo riappacificati solo quando abbiamo iniziato a sceglierci da soli: la subacquea anche oltre il limite delle profondità sportive finché ho potuto e lo sci fino a rompere un crociato, poi trekking, corsa e arrampicata. Tutti praticati abitualmente in compagnia, nessuno di squadra.
Un anno fa, parlando di sport completi con un collega, lui mi cita il canottaggio. Il tempo di informarmi presso le società lungo il Naviglio e sono iscritta per i primi quattro mesi. Ho scoperto un mondo che mi era sconosciuto pure se vengo da una città sede di federazione e gare nazionali. Partendo da zero, ho seguito i consigli, sudato, aggiunto altri quattro mesi e anche il corso estivo. Dell’effetto mentale ho già parlato, mi fa stare davvero bene.
A fine settembre, dopo un’uscita sul lago Maggiore l’allenatore ci propone di partecipare a una gara, a me e alle altre ragazze dell’equipaggio. I quaranta li abbiamo superati tutte da un pezzo, è un Master, niente di veramente serio, ma squadra e gara erano parole che avevo vissuto sempre da lontana spettatrice, e ora mi si chiedeva di provarle in prima persona plurale.
“Che ne pensi di fare una gara di coastal rowing il 20 ottobre a Sanremo?”
“Se credi che ce la posso fare, ci sono”
“Certo, altrimenti non te lo avrei chiesto”
Ci ho pensato meno di due secondi prima di rispondere. Il resto è andato, filato via veloce e senza fiato, gli allenamenti sempre più intensi, i 6000 che non avevo mai fatto, l’obiettivo di un tempo non fine a se stesso ma all’omogeneità dell’equipaggio, il mare che non avevo mai provato coi remi in mano neanche sul tender, il cameratismo che pian piano si è creato, l’impegno comune per un risultato comune. Certo le diciottenni della categoria Junior partite tre minuti dopo ci hanno superato in modo imbarazzante, ma il nostro risultato lo abbiamo portato a casa, mantenuto il passo fino alla fine senza cedimenti con il tempo per cui ci eravamo allenate. Era il massimo che potessimo fare, considerando anche il brevissimo preavviso, l’inesperienza e le avversarie, e siamo contente.
Ma a quanto pare è stato solo l’inizio, ci sarà ancora da sudare 😅.
“Rockin’ With The Best” – P.O.D.