Fahrenheit 451

Questo post lo avevo scritto di là ma ho pensato che poteva stare benissimo anche qui.

Burn

“Nothing As It Seems” – Pearl Jam

Domenica pomeriggio ho acceso il camino e mi sono rintanata in casa, ogni tanto ho bisogno di un po’ di tranquillità. Avevo voglia di un libro, e me ne è tornato in mente uno letto tanto tempo fa, Fahrenheit 451. L’ho sfogliato alla ricerca di un paio di tratti in cui avevo messo un segnalibro, poi ho ricominciato dall’inizio. Pur se scritto nel ’53, è quantomai pertinente al momento storico. C’è anche un po’ di me qui, ma non è per questo che vale la pena leggerlo.

Vale la pena perché è veramente bello.

«Sono un temperamento asociale, dicono. Non mi mescolo con gli altri. Ed è strano, perché io sono piena di senso sociale, invece. Tutto dipende da che cosa s’intenda per senso sociale, non vi sembra? Per me significa parlare con voi di cose come queste.» Si mise a far suonare delle noci cadute dall’albero del giardino davanti alla casa.
«O anche parlare di quanto è strano questo mondo. Stare con la gente è una cosa bellissima. Ma non mi sembra sociale riunire un mucchio di gente, per poi non lasciarla parlare, non sembra anche a voi? Un’ora di lezione davanti alla TV, un’ora di pallacanestro, o di baseball o di podismo, un’altra ora di storia riassunta o di riproduzione di quadri celebri e poi ancora sport, ma, capite, non si fanno domande, o almeno quasi nessuno le fa; loro hanno già le risposte pronte, su misura, e ve le sparano contro in rapida successione, bang, bang, bang, e intanto noi stiamo sedute là per più di quattr’ore di lezione con proiezioni. Tutto ciò per me non è sociale. E’ tutt’acqua rovesciata a torrenti, risciaquatura, è, mentre loro ci dicono che è vino quando non lo è. Ci riducono in condizioni così pietose, quando viene la sera, che non possiamo fare altro che andarcene a letto o rifugiarci in qualche Parco di divertimenti a canzonare o provocare la gente, a spaccare i vetri nel Padiglione degli spaccavetri o a scassare automobili, nel Recinto degli scassamacchine, con la grossa sfera d’acciaio. O non ci resta che salire in macchina e correre pazzamente per le strade, cercando di vedere quanto da vicino si possano sfiorare i lampioni e quanto strette si possono fare le curve, magari sulle due ruote laterali. Può darsi benissimo che io sia proprio quello che dicono, d’accordo. Non ho amici, io. E questo dovrebbe provare che sono anormale. Ma tutte le persone che conosco urlano o ballano intorno come impazzite o addirittura si battono a vicenda, selvaggiamente. Avete notato come la gente si faccia del male, di questi tempi?»
«Le vostre parole, come sono antiche!»
«Talvolta, sono antica. Ho paura dei ragazzini della mia età. Si uccidono a vicenda. Credete che sia sempre stato così? Lo zio dice di no. Sei amici miei sono morti d’arma da fuoco da un solo anno a questa parte. Dieci ne sono morti in incidenti automobilistici. Mi fanno paura e loro non mi hanno in simpatia perché ho paura. Lo zio dice che suo nonno si ricordava del tempo in cui i ragazzi non si ammazzavano a vicenda. Ma tutto ciò avveniva molto tempo fa, quando le cose erano diverse. La gente aveva il senso della responsabilità, dice lo zio. Sapete, io ce l’ho, il senso della responsabilità. Mi prendevano a sculacciate, quando dimostravo di averne bisogno, del senso della responsabilità, anni fa. E faccio la spesa e rigoverno la casa completamente a mano, senza elettrodomestici.»
«Ma soprattutto», riprese, dopo un istante di pausa, «mi piace studiare la gente. Alle volte passo l’intera giornata sulla ferrovia sotterranea, a sentir le persone parlare, a guardarle. Mi piace indovinare chi sia quel tale, che cosa voglia quell’altro, dove vadano. In certe occasioni vado perfino nei Parchi di divertimento o faccio delle corse sulle auto a reazione, quando filano a mezzanotte ai margini della città e la polizia lascia fare, finché sono assicurati. Fino a quando uno abbia diecimila dollari d’assicurazione, tutti sono felici e contenti. Spesso scivolo come un serpente su una vettura della sotterranea a sentire che cosa dicono le persone. O nelle mescite di bibite dolci, e sapete che cosa ho scoperto?»
«Che cosa?»
«Che la gente non dice nulla.»
«Oh, parlerà pure di qualche cosa, la gente!»
«No, vi assicuro. Parla di una gran quantità di automobili, parla di vestiti e di piscine e dice che sono una meraviglia! Ma non fanno tutti che dire le stesse cose e nessuno dice qualcosa di diverso dagli altri. E quasi sempre nei caffè hanno le macchinette d’azzardo in funzione, si raccontano le stesse barzellette, oppure c’è la parete musicale accesa con i disegni a colori che vanno e vengono, ma si tratta soltanto di colore e il disegno è del tutto astratto. E nei musei, ci siete mai stato? Tutta roba astratta. Ecco quello che ci si trova ora, nei musei. Lo zio dice che era differente una volta. Molto tempo fa, non so bene quando, i quadri e la scultura dicevano delle cose precise, mostravano addirittura delle “persone”!»

La semplicità è mettersi nudi davanti agli altri

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La semplicità è mettersi nudi davanti agli altri.
E noi abbiamo tanta difficoltà ad essere veri con gli altri.
Abbiamo timore di essere fraintesi, di apparire fragili,
di finire alla mercè di chi ci sta di fronte.
Non ci esponiamo mai.
Perché ci manca la forza di essere uomini,
quella che ci fa accettare i nostri limiti,
che ce li fa comprendere, dandogli senso e trasformandoli in energia, in forza appunto.
Io amo la semplicità che si accompagna con l’umiltà.
Mi piacciono i barboni.
Mi piace la gente che sa ascoltare il vento sulla propria pelle,
sentire gli odori delle cose,
catturarne l’anima.
Quelli che hanno la carne a contatto con la carne del mondo.
Perché lì c’è verità, lì c’è dolcezza, lì c’è sensibilità, lì c’è ancora amore

(Alda Merini)

 

“Ain’t Got No, I Got Life” – Nina Simone

I ain’t got no home, ain’t got no shoes
Ain’t got no money, ain’t got no class
Ain’t got no skirts, ain’t got no sweater
Ain’t got no perfume, ain’t got no bed
Ain’t got no mind

Ain’t got no mother, ain’t got no culture
Ain’t got no friends, ain’t got no schooling
Ain’t got no love, ain’t got no name
Ain’t got no ticket, ain’t got no token
Ain’t got no God

And what have I got?
Why am I alive anyway?
Yeah, what have I got
Nobody can take away?

Got my hair, got my head
Got my brains, got my ears
Got my eyes, got my nose
Got my mouth, I got my smile
I got my tongue, got my chin
Got my neck, got my boobs
Got my heart, got my soul
Got my back, I got my sex

I got my arms, got my hands
Got my fingers, got my legs
Got my feet, got my toes
Got my liver, got my blood

I’ve got life, I’ve got my freedom
I’ve got the life

I’ve got the life
And I’m gonna keep it
I’ve got the life
And nobody’s gonna take it away
I’ve got the life

Milano, outside

Mattina presto. Nelle orecchie, questo ed altro sullo stesso genere. Il mio.

“Sweet Dreams (Are made of this)” – Marilyn Manson

 

[scrive per noi] – 321Clic – La prima volta – IL LAVORO E L’ACCIAIO

i discutibili

IMG_0609Prima di tutto ringrazio Wish aka Max per l’invito a scrivere qui, lo spunto è stato un argomento che mi tocca molto da vicino, un fil rouge che mi lega al suo post.

Riguardo al lavoro, mi sono sempre ritenuta fortunata: occupata ininterrottamente da venticinque anni, al caldo d’inverno, al fresco d’estate econun mestiere che mi appassiona. Non è piovuto dal cielo: c’è voluto impegno e scelte a volte scomode, ma neè valsa la pena.

La prima volta che ho varcato i cancelli della fabbrica avevo diciannove anni, una ragazzina fresca di scuola catapultata in un mondo di metalmeccanici. Mi son trovata subito bene, e ancora oggi sniffo l’odore di saldatura e guardo con amore quei rotoli di acciaio che vedo transitare da un reparto all’altro, neri e opachi all’andata, lucenti e brillanti al ritorno. All’interno di questa acciaieria, io sono un’informatica dell’area più tecnica. Mi nutro di bit, di…

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