Nell’ultimo mese lo spazio dedicato a WordPress ed ai social network più in generale è stato drasticamente ridotto ai minimi termini, il tempo prosciugato da un progetto fotografico che ho consegnato lunedì scorso e dai rapporti personali che hanno comunque la precedenza rispetto a quelli virtuali.
Con un po’ di respiro, ho iniziato a leggere un po’ di quel che ho perso in questi giorni.
Una rapida scorsa a facebook, le solite cose più o meno tutti i giorni, per quelle prevedibilmente interessanti ci sono le notifiche e non c’è bisogno di approfondire altro.
Apro il Reader di WordPress, ci vuole un po’ a leggere i post, ma più vado indietro, più si fanno strada un paio di considerazioni.
La prima è che facebook è la vetrina dove esporre tutta la figaggine e lo splendore di cui siamo capaci, i chili persi in vista dell’estate, e una manciata di aforismi di terza mano (l’Huffington Post suggerisce opportune periodiche pulizie), mentre tanti blog assomigliano a una sorta di refugium peccatorum, il luogo dove confessare tutte le contorsioni, tribolazioni e confusioni mentali di cui siamo preda, e che non ci sogneremmo mai di postare su facebook.
Vero è anche che una pagina facebook non si nega a nessuno, mentre per aprire un blog ci vuole un po’ di più.
Rimanendo poi in questo mondo, la seconda considerazione: ma siamo davvero così contorti e complicati? Siamo davvero così in crisi e pieni di dubbi esistenziali? E non intendo dire che c’è chi inventa di sana pianta problemi non suoi per destare interesse, lì ci sarebbe del patologico, ed è tutto un altro discorso. Intendo piuttosto la propensione a parlare dei momenti negativi piuttosto che di quelli positivi, percorrere i propri labirinti mentali passando e ripassando per i vicoli più bui evitando quelli più illuminati, come se questi ultimi fossero meno interessanti da esplorare, come se avessimo paura di mostrarli.
Una riflessione analoga l’ho fatta al corso di reportage parlando dei progetti da presentare come lavori conclusivi (su nove persone, solo in due abbiamo scelto di raccontare “in positivo”), ma si potrebbe estendere anche ai programmi in tv piuttosto che agli articoli sui giornali… perché la storia o l’evidenza di un degrado devono essere più interessanti e coinvolgenti del racconto di un riscatto o di qualcosa di bello?
Dando per scontato che di Bukowski ce n’è uno solo, cosa spinge i comuni mortali a scavare nel marcio, il proprio e quello altrui?
Non so darmi una spiegazione, forse dovremmo solo guardarci un po’ intorno e prenderci meno sul serio, e allora il menhir che ci sentiamo addosso tornerà ad assumere dimensioni più sostenibili, o forse è semplicemente vero il pensiero di Karen Blixen citato qualche minuto fa Disintegrazioni: “Tutti i dolori sono sopportabili se li si fa entrare in una storia, o se si può raccontare una storia su di essi.”
“Creep” – Radiohead