I ❤️ minors

I ❤️ minors

Mi piace il basket perché è un gioco di squadra in cui ancora si può credere, e mi piacciono le minors perché son fatte di ragazzi che si sbattono per allenarsi e giocar partite, ritagliando il tempo tra esami universitari e turni al KFC, per il solo piacere di esser lì, lontani mille miglia dalla fama di un LeBron, col cuore di un Melli, la garra di un Pajola e i post-partita che immagino faccia Jokic.

Mi piacciono le minors perché son fatte di allenatori che dopo il lavoro in ufficio moltiplicano quella manciata di ore rimaste per gestire la squadra, inventare schemi, faticare a spiegarli, e trovarsi poi in panca a smadonnare quando nessuno li esegue.

Mi piacciono le minors perché anche se una parte di queste ore sono sottratte allo mia vita, non c’è niente di più bello che veder qualcuno a cui tieni impegnarsi tanto su qualcosa a cui tiene davvero così tanto.

Mi piacciono le minors perché sono fatte di società che spesso raccattano a stento i soldi di una sponsorizzazione, e gli tocca riciclar le maglie per rientrare nel budget e fare i salti mortali per trovar palestre aperte e disponibili, ma resistono.

Mi piacciono le minors perché son fatte di ragazzi che arrivano in campo già con le casse di birra, da bere dopo la partita a prescindere dal risultato.

Mi piacciono le minors perché ci sono due allenatori che hanno comprato delle maglie orribili in Guatemala promettendo di scenderci in panca se avessero raggiunto i play-off, e lo hanno fatto.

Mi piacciono le minors perché a una manciata di ore dalla fine di un campionato in cui ci si è buttati dentro quasi per scherzo per far giocare un gruppo di amici, c’è qualcuno che ha tanto cuore da aver scritto questo:

Ed eccoci qua alla fine di questa stagione, una stagione ricca di emozioni, ricca di risate, di sudore, di urli e di tanta tanta voglia di giocare a basket

Vi ricordate in quanti siamo partiti? Un esercito infinito di giocatori, con allenamenti improponibili in 18 in quel del Cattaneo, dove tirare 10 liberi sembrava un’eternità

E invece guardiamoci ora, una banda di gente mezza rotta e acciaccata, ma che con il cuore viene ogni volta a solcare il campo da basket per l’amore verso lo sport e l’affetto verso la squadra; lo zoccolo duro della DR2 del 5 Pari

Vi sto scrivendo questa lettera per ringraziarvi, prima come squadra e poi come singoli individui per l’annata fantastica che mi avete fatto passare. Questo è stato l’anno sportivo più bello da che ho memoria e non mento, mi avete fatto provare un intruglio di emozioni bellissime, mi avete riempito il cuore di gioia, le gambe di voglia di correre e di sputare i polmoni a terra per voi, ho vissuto dei momenti fantastici, talmente tanti che non riesco a ricordarne neanche uno in particolare, ma so di averli tutti nel cuore dal primo all’ultimo

Ma bando alle ciance, ora tocca a ciascuno di voi ricevere i suoi meritati ringraziamenti

Grazie Ahmed, l’ultimo faraone d’Egitto, per avermi fatto scoprire la canna da zucchero, per i tuoi aneddoti stravaganti ma sempre belli, per avermi fatto compagnia quando rimanevo da solo a tirare liberi come uno scemo. Magari facciamo solo una bella gettata di cemento sulle mani così cominciamo a cartonare un po’ sto pallone senza perderlo ahaha

Grazie Carlo, Re di Sardegna, per tutti i passaggi in auto che abbiamo condiviso, per esserti prestato alle mie battute sui sardi, per tutti gli scambi di opinione sul gioco e sul campo. Giusto due cose: cerchiamo di aggiustare puntualità e presenze e magari facciamoci un bel viaggetto a Lourdes per ridurre tutti gli infortuni

Grazie Ema, il viaggiatore, che anche se non sei qua sei stato un fondamento per la squadra e una parte di lettera spetta anche a te, per la tua capacità di far muovere la squadra come un direttore d’orchestra, per le belle parole che hai speso prima di partire al Pala e soprattutto per averci invitato lì con te. Fai solo attenzione a non uscire di testa quando non segniamo e vedrai che tutto è più semplice

Grazie Spita, il veterano, per i consigli da esperto, per la tua capacità di passare dalla risata alla serietà, per la tua capacità di prenderti la responsabilità in campo in un momento di difficoltà. Giusto una cosa, troviamo da qualche parte 2 ginocchia nuove da montarti così arrivi al top

Grazie J, il lavoratore-giocatore, per tutto il tuo impegno a giostrare lavoro e campo, per la tua voglia di mangiare il canestro ad ogni occasione possibile, per essere stato forse quello con cui più mi sono cartellato giocando. Troviamo una soluzione per gli incastri lavoro-basket e un posto non te lo toglie nessuno

Grazie Dabbe, permettimi dire il timidone, per esserti aperto con noi lungo il corso dell’anno, per la passione che ogni tanto fai trasparire, per la voglia di migliorare sempre e non sbagliare più. Mi raccomando però, non palleggiareeeee

Grazie Dani, il lampo più veloce della luce stessa, per esserci sempre stato, per avermi sempre sostenuto e dato fiducia, per i sonori cinque che ci siamo scambiati, per tutta la voglia di correre che mi instillavi vedendoti giocare mettendoci il cuore, per tutta la pazienza che hai messo nel cercare di insegnarmi a tirare. Continua sempre così, sempre più veloce e sempre più potente

Grazie Vullo, il treno infermabile della 5 Pari, per i tuoi saluti urlati, per essere stato un mio fidato compagno in ogni partita di allenamento, per quelle 2/3 stoppate che ci siamo scambiati a vicenda le rare volte in cui ci sfidavamo. Imparassi a credere in te stesso come facciamo noi e smettessi di essere il tuo stesso peggior nemico posso assicurarti che saresti definitivamente inarrestabile

Grazie Turi, the animal, per tutta la tua passione, per il nostro urlo, per la voglia che si vede fremere nei tuoi occhi ogni volta che solchi un campo, per il tuo tifo sfegatato anche da zoppo. Peccato per l’infortunio che ti ha costretto fuori dal campo, ma che ha fatto risaltare il tuo cuore e la tua voglia di combattere sempre e comunque contro tutto e tutti

Grazie Gianlu, la zoccola della 5 per tutte le squadre in cui giochi, per essere venuto a correre con noi anche distrutto da un altro allenamento, per non esserti arreso alla stanchezza, per aver fatto del sudore la tua stessa pelle, per i racconti in direzione Milano in macchina. Trova la stabilità di una squadra (noi) e impara ad usare 2 mani per i passaggi e vedrai che sarà tutto in discesa

Grazie Pier, Signore dei terroni, per essere venuto alla nostra riscossa quando il play quasi quasi toccava a me farlo, per le tue triple in scioltezza, per il tuo profondo senso di squadra, per averti visto giocare sul dolore a denti stretti dimostrando quanto grande fosse davvero il tuo amore per lo sport e il tuo affetto per questa squadra. Giusto giusto ogni tanto tieni a bada la scimmia che vuole scappare fuori ahaha

Grazie Ste, il nostro Popovich, per aver pazientato tanto con me, per avermi cazziato quando sbagliavo e per avermi complimentato quando azzeccavo qualcosa, per aver visto in me quelle poche potenzialità e forze che c’erano nel mio gioco. Continua a dare alla squadra i tuoi consigli e regala per favore un po’ di quella intelligenza cestistica che tanto ci serve ahaha

Grazie Zoltan, la fiamma sprigionata in panchina, per avermi concesso di giocare per voi, di imparare, di migliorare anche con tutte le mie lacune, per avermi dato fiducia e per avermi spronato ad essere migliore. Il mio consiglio per te è di cominciare a prendere un bell’antiipertensivo profilattico prima delle partite in ottica dei nostri terzi quarti ahaha

Grazie Cava, la farfalla, perché capace di fare una metamorfosi da ballerina a giocatore, per tutta la cazzaggine che ci hai regalato tutto l’anno, per le risate, per aver saputo sollevare il morale anche quando era giù, per la tua capacità di dare subito il tuo meglio agli altri, in generale proprio per la bella persona che sei. Non cambiare, sii sempre così, al massimo cambia un po’ la scelta del tuo tiro preferito ahaha

Grazie Vannak, il generale, per le spallate in post, per le cartellate a quei poveri tabelloni, per i baklava offerti al kebab, per essere stato un mio fratello ad ogni disco possibile e immaginabile, per esserci stato sempre in ogni occasione, per esserti prodigato per esserci sempre per la squadra (vedi Grugliasco). Non bere troppo, non bruciarti in disco e non diventare troppo grosso altrimenti chi cazzo ti tiene più in allenamento ahaha

Grazie Andre, capitano mio capitano, per tutti i consigli in campo e fuori, per esserci stato sempre con la testa capace di tranquillizzare la squadra, per la bellezza di vederti giocare, per i sorrisi che ci hai fatto quando eri veramente soddisfatto, per tutti i grazie che mi hai detto ad ogni saluto, oggi sono finalmente io a dirti nero su bianco GRAZIE

Grazie Dag, guerriero vero, perché è grazie a te se ho potuto conoscere tutti, se ho potuto gioire così tanto in un anno, se ho avuto occasione di migliorarmi a dare il meglio di me, per essere stato d’esempio di cosa significhi vincere con il cuore e con le palle, per aver lottato su ogni pallone, contro ogni giocatore. Mi raccomando, smetti di battere ste cazzo di mani, ma soprattutto non smettere mai di combattere per quel pallone arancione

Ed eccoci alla fine, non manca più nessuno. Ma che cazzo dico dai, lo sappiamo tutti chi manca

L’ultimo, ma per tutto fuorché per importanza, MAX fottutissimo FELLETTI, il cuore vivo e pulsante della DR2, l’uomo che ha reso con le sue azioni, il suo impegno, con le sue ore e con il suo cuore possibile vivere un anno così bello. Colui che ha reso possibile che ciascuno di noi avesse una possibilità di sorridere, una chance di migliorare. L’uomo che ha trasformato una squadra di basket di ragazzi un po’ cazzoni in qualcosa di oltre, che ancora i vocabolari non sanno definire

Non ho neanche abbastanza parole nella testa per descrivere quanto tu ci abbia dato, forse l’espressione che più ci si avvicina è ufficialmente chiamarti San Max Felletti

Ora si che siamo alla fine

Non so più davvero cosa scrivere, vorrei dirvi non so quante altre cose, vorrei ringraziarvi in modi sconosciuti all’uomo, ma non ho le parole per farlo

Avrei voluto potervi dare ancora di più, fare di più, ammazzarmi di più. Avrei voluto essere più utile dentro e fuori dal campo, sarei voluto essere più forte per voi, essere qualcuno che avreste potuto guardare dicendo: la palla è tua, mi fido di te. Mi spiace non esserci riuscito, in verità non è un rimpianto, ma solo un peccato

Vi dico ancora una volta grazie, e soprattutto

WE’RE BLOOD BOUND

Dal vostro

Red

“Il fuoco non si e’ spento” – Bull Brigade


Skyway 3469

Skyway 3469

Finally.

“Stairway to Heaven Live” – Led Zeppelin

Freedom

“What The Water Gave Me” – Florence + the Machine

Piccole soddisfazioni tra amici

Piccole soddisfazioni tra amici

Le liste, i numeri e le statistiche mi sono sempre piaciuti a prescindere dall’effettiva utilità del dato. Mi piace quando arriva la notifica dell’iCoso “Il tempo di utilizzo è diminuito la settimana scorsa”, è una piccola vittoria contro di lui. Mi piace sapere che nel 2018 ho dormito in media 6 ore e 14 minuti a notte. Non serve a niente, l’obiettivo di sonno è la prima feature che ho disabilitato quando ho comprato il Fitbit perché non esiste che qualcuno o qualcosa decida a che ora devo andare a dormire.

I numeri importanti hanno una direzione, devono scendere oppure salire. Non riesco a far scendere quanto vorrei il parziale sui 500 del remoergometro, e ogni volta che vado in montagna pensando d’aver fatto più fiato, dopo dieci minuti di camminata con lo zaino delle attrezzature respiro già come Darth Vader. Questo weekend però qualche soddisfazione l’ho portata a casa: imparare a salire da prima e un 6b, uno di quei passaggi che per essere superati richiedono tecnica, forza fisica e posizioni incompatibili con la gravità terrestre. Max e Mirco arrampicano da vent’anni, dopo aver visto lo sforzo costato a loro per superarlo, stavo quasi per rinunciare prima ancora di tentare. Ma no, Provare sempre.

Sorrido di un sorriso che si prolunga nel tempo, come ogni volta che riesco in qualcosa che non pensavo di. Sorrido perché se anche sotto c’erano M&M a dar consigli, là sopra c’ero solo io. Sorrido ancora domenica sera, quando riesco ad allungarmi sul divano ed accendere Netflix, che c’è ancora qualcosa che manca per chiudere il weekend.

Il trailer prometteva bene, e ora che l’ho visto tutto intero c’è solo una cosa che posso dire a chi nelle vene gli scorre ancora un ibrido di sangue e rock: guardatelo. Non è neanche necessario esser stati fan sfegatati dei Mötley Crüe per goderselo. Man mano che scorrono i minuti ti chiedi come diavolo sia possibile che siano ancora tutti lì. Come Iggy Pop. Come Keith Richards. E la scena di chiusura un brivido sotto la pelle me lo ha dato. Chissà se fa lo stesso effetto anche ad altri ibridi.

H4K (Amsterdam Reloaded)

Quattro sono le città che hanno segnato una certa parte della mia vita.

New York, l’illusione
Berlino, la frattura multipla mai esposta
Amsterdam, la consapevolezza
Düsseldorf, il sigillo

L’ultima volta ad Amsterdam era stata due mesi prima di .
Sette giorni di November Rain, da sola. Sette giorni di training on the job al mattino, chilometri a piedi il pomeriggio, smarcare tutto il menù dell’Oesterbar a cena e stracciarmi le carni di notte. Non credo esistano guai o dolori dell’anima in grado di farmi passare l’appetito. No way.

Amsterdam è anche la città dove ho scattato le prime, vere, fotografie. Sembra che ci sia una regola per cui ad ogni fine debba corrispondere un inizio, sarà un effetto collaterale della terza legge di Newton.

Un’era glaciale separa novembre 2013 da marzo 2019.
Il ghiaccio è elemento paziente e possente, cattura una ad una le particelle di umidità e ricopre lentamente le superfici, penetra millimetriche fratture della roccia, le forza, si espande, fende e squarcia. Il ghiaccio non è gentile o caritatevole, è amorale e imparziale, e ha gli occhi puntati su un orizzonte che non siamo in grado di vedere. Distrugge le cellule deboli e senza futuro per preservare quelle forti da liberare nell’era successiva. Se questa era poi si prolunghi per una manciata di mesi o milioni di anni è indifferente ai fini dei suoi calcoli.

Sono tornata ad Amsterdam, questa volta senza pensieri molesti e non da sola.

Linda in 1
Pamela al 2
Elena al 3
Io al 4
Marco al timone

Beekse Bergen è il nome della nostra barca. Beekse Bergen è anche il nome del più grande zoo olandese, ma non ci dispiace affatto.

Here we are. Let’s Get It Started.

“Come Together” – Aerosmith (Rocks Donington 2014)

Io e lo sport

I ragazzini di oggi hanno una programmazione da professionisti, non ce n’è quasi nessuno che non pratichi almeno un paio sport di cui uno agonisticamente. Calcio ça va sans dire, ma anche basket, scherma, badminton, pallavolo. È una buona cosa, imparano a stare insieme, gestire le emozioni, lavorare per un obiettivo comune rinunciando a un po’ di individualità, sempre che i genitori non esagerino con le pressioni. Io vengo da una famiglia operaia di una città operaia, bicicletta e pattini sotto casa erano più che sufficienti come training giornaliero, finché non si scoprì che come tutti quelli della mia generazione, anche io avevo la scoliosi e i piedi storti.

Quindi, nuoto correttivo e scarpe ortopediche, salvo poi scoprire vent’anni dopo che i piedi erano ancora storti e il nuoto non era lo sport più adatto per correggere il difetto. Nuotare però mi piaceva, nonostante la tortura della cuffia di plastica e la ginnastica sulle gradinate di cemento, e all’uscita tendevo l’orecchio per ascoltare i rimbalzi della palla e lo stridere delle scarpe sul parquet del basket. Non potevo fermarmi a guardare, ma sapevo che lì dentro c’era una squadra.

Degli sport praticati alle medie ho un ricordo fastidioso. Si andava al Campo Scuola a fare atletica, e a me che da adulta sforo di poco il metro e mezzo l’insegnante faceva fare corsa agli ostacoli e salto in alto con l’asta posata alla stessa misura delle compagne più alte. Oggi sarebbe qualificato come bullismo se non mobbing. Alle superiori l’unico sport femminile era la pallavolo, si aspettavano che al primo anno fossimo già capaci e qualcuna lo era davvero. Nessuno m’ha insegnato e non ho mai giocato.

Io e lo sport ci siamo riappacificati solo quando abbiamo iniziato a sceglierci da soli: la subacquea anche oltre il limite delle profondità sportive finché ho potuto e lo sci fino a rompere un crociato, poi trekking, corsa e arrampicata. Tutti praticati abitualmente in compagnia, nessuno di squadra.

Un anno fa, parlando di sport completi con un collega, lui mi cita il canottaggio. Il tempo di informarmi presso le società lungo il Naviglio e sono iscritta per i primi quattro mesi. Ho scoperto un mondo che mi era sconosciuto pure se vengo da una città sede di federazione e gare nazionali. Partendo da zero, ho seguito i consigli, sudato, aggiunto altri quattro mesi e anche il corso estivo. Dell’effetto mentale ho già parlato, mi fa stare davvero bene.

A fine settembre, dopo un’uscita sul lago Maggiore l’allenatore ci propone di partecipare a una gara, a me e alle altre ragazze dell’equipaggio. I quaranta li abbiamo superati tutte da un pezzo, è un Master, niente di veramente serio, ma squadra e gara erano parole che avevo vissuto sempre da lontana spettatrice, e ora mi si chiedeva di provarle in prima persona plurale.

“Che ne pensi di fare una gara di coastal rowing il 20 ottobre a Sanremo?”
“Se credi che ce la posso fare, ci sono”
“Certo, altrimenti non te lo avrei chiesto”

Ci ho pensato meno di due secondi prima di rispondere. Il resto è andato, filato via veloce e senza fiato, gli allenamenti sempre più intensi, i 6000 che non avevo mai fatto, l’obiettivo di un tempo non fine a se stesso ma all’omogeneità dell’equipaggio, il mare che non avevo mai provato coi remi in mano neanche sul tender, il cameratismo che pian piano si è creato, l’impegno comune per un risultato comune. Certo le diciottenni della categoria Junior partite tre minuti dopo ci hanno superato in modo imbarazzante, ma il nostro risultato lo abbiamo portato a casa, mantenuto il passo fino alla fine senza cedimenti con il tempo per cui ci eravamo allenate. Era il massimo che potessimo fare, considerando anche il brevissimo preavviso, l’inesperienza e le avversarie, e siamo contente.
Ma a quanto pare è stato solo l’inizio, ci sarà ancora da sudare 😅.

“Rockin’ With The Best” – P.O.D.

Due di tre

“La cura per qualsiasi cosa è l’acqua salata: il sudore, le lacrime o il mare.”

“Song 2”- Blur

Enjoy the silence #4

Pensavo che in due mesi avrei dimenticato qualcosa. Perso gli automatismi. Due mesi in cui a parte un weekend in montagna, gli unici sport praticati sono stati movimentazione mascelle e sollevamento bicchieri.
Lo temevo.
Ne ero quasi sicura.

Braccia, busto, gambe.
Il clack secco della spalata appena oltre le ginocchia
Spingere con le gambe
Braccia al petto
Un altro clack

Braccia, busto, gambe.
Clack
Gambe
Braccia
Clack

Ad lib

Invece no.
Movimenti fluidi, subito, come se non avessi mai smesso.
Omogenei, come se avessimo remato sempre insieme.
Invece no.
Altro giorno, altro orario, altro equipaggio.
Eppure le schiene si abbassano e si alzano insieme, i remi entrano ed escono insieme, il clack è uno solo, come il tempo dettato da un metronomo.

Alle otto e mezzo siamo al ponte di Corsico.
Contro destro.
A favore sinistro.
Contro destro.
A favore sinistro.

Ancora un paio di manovre e iniziamo a rientrare.

Sessanta minuti a guardare la schiena davanti a me, a copiarne il ritmo dell’attacco e della ripresa.
Zero pensieri.
Zero ansie.
Zero problemi.
Un lunghissimo time out.

S. M. S. M.
Quattro donne che per un’ora non hanno aperto bocca se non per respirare.
Il lunedi promette bene.
Quanto mi mancava.

Quattro Guinness, due club sandwich, una semifinale e uno ski-lift

Da un po’ di tempo dovevo rivedere il mio amico velistainteristadisinistra, ma anche se ora siamo nella stessa città incrociarsi è difficile come quando era a far viaggiare gas e petrolio sotto la sabbia a quattromila chilometri da qui. Vacanze sue, mie, una serata disdetta un’ora prima, impegni quotidiani già programmati e uscite organizzate all’ultimo momento. Lui è milanese vero e io mi sto adeguando ai costumi degli indigeni.

“E allora facciamo mercoledì, ci vediamo la semifinale mentre facciamo due chiacchiere?”
“Yep”

Appuntamento senza orario al solito locale in una delle vie laterali, mi squilla al parcheggio e in cinque minuti sono lì. Lui lo frequenta da sempre, io mi ci sto affezionando. Quando riesci a dire “il solito posto” in una città che non è la tua è un conquista.

Fa un caldo bestia, ho i capelli umidi, gli sgabelli son sempre troppo alti per arrampicarmici compostamente e il prendisole a portafoglio si apre ogni tre per due, ma gli occhi son tutti puntati alla tivvù e me la cavo dignitosamente a conquistare il mio posto.
Ci piace stare al bancone e intervallare le chiacchiere con gli interventi del barista che appoggia i gomiti davanti a noi tra un cocktail e l’altro, ma con la semifinale il locale è pieno, si fatica anche solo a sentirsi e lui arranca per star dietro agli ordini di chi guarda la partita e del compleanno ai tavoli esterni, dunque via con la prima Guinness.

Bicchiere inclinato a 45° e raddrizzato man mano che si riempie, due minuti scarsi di riposo, la seconda spillatura a riempire fino all’orlo. Da manuale.
Il primo sorso è nettare in gola, la Guinness non è birra, è Guinness.

Tre inglesi esultano al 5′, incuranti di tutto il resto del locale che gli tifa contro. Ok, la mia prima scelta era l’Islanda ma a seguire Croazia a oltranza.
Ordiniamo due club sandwich con la tartare invece del solito hamburger, parliamo tra un’azione e l’altra con gli occhi che si spostano veloci dal viso alla tivù, io gli racconto della vacanza appena finita, lui della proposta appena ricevuta di lavorare per sei mesi nel sud-est asiatico.

“Mah, ci sto pensando, devo dar risposta entro pochi giorni”
“Ma scusa, ti pagano per svernare in un posto meraviglioso, che aspetti a dire di si?”

Primo tempo, secondo tempo, al gol della Croazia esultiamo tutti, c’è un pezzo nerazzurro lì.
Un’altra Guinness per accompagnare i supplementari.
Mi guardo intorno, osservo visi, gesti, espressioni, è un riflesso condizionato. Alcuni palesemente si conoscono, arrivati insieme o frequentatori abituali, altri no, ma sono tutti uniti dal medesimo comune aggregatore. Lorenzo se ne accorge, forse indovina i miei pensieri.

“Sei l’unica donna qui dentro”, mi dice. Sorrido, è una frase che sento spesso.
“A volte vi invidio, le donne non son capaci di divertirsi insieme”.

Lo penso davvero. Le donne si incontrano per fare shopping, aperitivo, lamentarsi degli uomini che hanno e di quelli che non riescono ad avere, (s)parlare delle assenti, al massimo programmare vacanze, ma mai, mai col chiaro ed unico obiettivo di passare una serata spensierata, far puttanate prima o dopo il terzo bicchiere non analcolico, divertirsi e basta.
Gli racconto del weekend scorso, un rientro a casa non programmato. Poco prima di mezzanotte mi chiama il pragmatico indeciso della barca, mi passa a prenderei da mia madre che a casa mia non ci sono ancora arrivata poi ci raggiunge anche l’uomo libero.
In barca eravamo tre persone qualsiasi in costume da bagno h24 con la stessa passione per il mare, a terra due stimati professionisti col frescolana e la camicia bianca e un’informatica col vestitino e il tacco dieci da ufficio. Centocinquantaquattro anni in tre. Alle due di notte siamo al parco a fare l’altalena su uno ski-lift montato tra due pali.
Le donne da sole queste cose non le fanno.

4′ del secondo supplementare, ancora Croazia. Inghilterra in dieci, il lungo recupero, i Vatreni in finale. I traguardi degli outsider mi fanno sempre un certo effetto. Mi torna in mente il discorso del coach Tony D’Amato in Any Given Sunday, chissà cosa gli dirà l’allenatore domenica pomeriggio.
Usciamo dal locale, ci salutiamo senza darci un altro appuntamento.
È bello tornare a casa a piedi.

“Blitzkrieg Bop” – Ramones

Filosofia del Surf

La notte scorsa, in uno degli ormai rarissimi sprazzi di insonnia, ho riletto Filosofia del Surf, un libretto scritto da Frédéric Schiffter. Un centinaio di pagine di piccolo formato e poco piene, ma dense come non mi capitava da tanto, dense da dover rileggere lo stesso periodo più di una volta per assimilarlo tutto, e comunque non pesanti. Non è un romanzo, e pur se scritto da un filosofo, non è neanche un vero trattato di filosofia. L’autore è uno che è cresciuto a pane, nuoto e judo, e ha messo i piedi su un longboard solo a quarant’anni e per amore della donna che lo ha iniziato al surf. Surf inteso non come sport ma come “offerta di un’ulteriore voluttà”.

Che poi neanche io riesco a incasellarlo come puro sport, per il semplice motivo che è molto, molto di più. Non è la corsa, in cui la terra è sempre lì e l’unico limite e l’unico sfidante ce li hai dentro di te; non è il curling, che pure stento a definire sport per motivi opposti ed è fatto di calcoli e misure; non è il tiro con l’arco, in cui l’ambiente è una variabile calcolabile. Cartier-Bresson diceva che “la fotografia è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore, è un modo di vivere”, e io credo che questa definizione sia altrettanto calzante all’oggetto del trattato. Dall’attesa dell’onda al suo arrivo al fondersi con essa. He’e nalu.

Le onde sono illusioni.
Arrivano dal nulla, assumono una
parvenza materiale e,subito,
s’infrangono e scompaiono.
Andare in cerca di simili miraggi fluttuanti è una perdita di tempo.
Proprio per questo ne ho fatto la mia vita.

Miki “Da Cat” Dora

Il surf mi ha sempre affascinata: di Un Mercoledì da Leoni ho la locandina appesa a un muro, e quando guardo Riding Giants o The Endless Summer cerco di immaginare cosa si possa provare a cavalcare un’onda di nove metri o a infilarsi dentro un tubo. Ho provato lo snowboard pensando che surfare la neve mi potesse far avvicinare all’idea, ma no, non ci arrivo.
Way too far.

Il surf è vita vissuta. L’onda non sarà mai quella desiderata ma una imprevedibile che potrà nascondere disastri e tragedie. Ma la gioia e l’euforia più forti sono brevi istanti che nascono nel mare delle inquietudini, e tutto ciò che il surfista desidera è rivivere quegli istanti.
Way too short.

Il surf è una di quelle robe che mi fanno desiderare d’esser nata in un altro posto e in un altro tempo, come quando ho messo i piedi a Central Park dove trent’anni prima erano stati Simon & Garfunkel e altre 500.000 persone, come quando ascolto The Dark Side of the Moon e penso al Pulse che ho visto nel ’94 orfano di Waters, o ai Led Zeppelin che si sciolsero a metà della mia quinta elementare.
Way too late.

Non essendo nata a Malibu negli anni 60′, la sola cosa che posso fare oggi è il numero 44 della mia wishlist per poterle almeno vedere, quelle onde. E fotografarle.

“Lords of the Boards ” – Guano Apes