Non c’è bisogno di saper distinguere sempre tutto nitidamente.

“Through Glass (Acoustic Live)” – Corey Taylor
Non c’è bisogno di saper distinguere sempre tutto nitidamente.
“Through Glass (Acoustic Live)” – Corey Taylor
L’ultima volta era stata qui a Milano nel 2018, una sera di novembre. Come sempre, scarsissimo preavviso da parte sua, ma si sa che non mi formalizzo per queste cose, sono quella che puoi suonare al citofono anche di notte se vedi la luce accesa passeggiando sul Naviglio. Stavolta quella di passaggio ero io, una giornata di lavoro nella dépendance torinese dell’azienda, e va da se che il minimo che potessi fare era ricambiare la cortesia e fare un fischio all’uomo che non cerca scuse e non deve spiegazioni.
Esco dal lavoro sotto la pioggia, il che mi sfastidia non poco date le attuali normative anticovid e il vestito che ho addosso, e temo già di dover sorseggiare un bicchiere di corsa riparati sotto un cornicione e poi via, ma dura giusto il tempo di seguire le istruzioni di google maps e parcheggiare a cento metri dalla destinazione, di fronte ad un murales che si merita più di uno scatto. Da quando ho la OM-D, la porto quasi sempre con me.
Il posto è una birreria di quartiere ben fornita e al di fuori dei circuiti fighetti, poche panche lungo la via, ad accompagnare i liquidi una scelta di panini che definirei illegale. Il posto giusto. Arrivo puntuale ma lo trovo già lì ad aspettare, uguale all’ultima volta che ci siamo visti. Due anni e mezzo alla nostra età contano quanto mezza giornata di un quindicenne.
Ordiniamo il primo giro e parliamo un po’ di noi, del lavoro che mi hanno offerto proprio lì a Torino e che ho gentilmente rifiutato, e di quello che continuerò a fare nonostante tutti i casini e le difficoltà. Si sa anche questo, se non fatico per guadagnarmi qualcosa, non son contenta. E poi, come faccio a mollare proprio adesso quel gruppo di scappati di casa che sembrano aver finalmente trovato un’anima e la voglia di lavorare insieme? Parliamo anche di basket, delle conoscenze più o meno comuni nel mondo virtuale che entrambi frequentiamo e di quello più vero a pochi passi dalla birreria. Scopro che siamo in un paese dentro la città, dove l’arte è appesa alle facciate delle case. Siamo al centro del MAU, il Museo di Arte Urbana.
Ci lasciamo dopo due birre inframmezzate da uno di quei panini illegali, magari ci si rivedrà al prossimo passaggio, di qui o di lì. Prima di rientrare, inseguo per un po’ l’arte attaccata i muri. Here is the result.
P.S.: Mi auguro che il sottobicchiere l’abbiate notato (e capito) tutti. Cheers.
Son due giorni che c’è nebbia. Poca e solo in certi orari, a dire il vero, e molto meno di quella che vorrei vedere. Sentire. Mi piace, è come un alito fresco sulla pelle. Come un filtro che smorza la bruttezza al di là dell’obiettivo. Come quando ti svegli con gli occhi appannati e le orecchie ovattate, e non hai ancora la percezione del troiaio in cui ti infilerai un attimo dopo aver poggiato i piedi a terra e preso in mano il telefono.
La vita è uguale a una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita.
Non sbagliava, la madre di FG. Fisso in agenda appuntamenti con me stessa e arrivo in ritardo. Faccio programmi che non riesco a rispettare. Tipo smettere di lavorare non dico alle sei, ma almeno alle nove, sarebbe già un risultato. Tipo leggere almeno venti pagine al giorno, e non riesco neanche ad aprire il libro. Tipo muovere non solo le dita delle mani ma anche tutto il resto del corpo.
Ci avevano fatto credere che avremmo potuto risalire in barca, non solo fisicamente, ma è durata poco. Troppo poco. Il mio ufficio si tiene con gli elastici, la metà degli italiani e 3/4 dei tedeschi sono in quarantena, uno ha gli attacchi di panico, uno è in ospedale trattato con l’ossigeno a una settimana dalla pensione. UK in lockdown, giusto un attimo prima di noi. I rumeni tengono botta, a quanto pare sono i più resistenti. Tappo i buchi come posso, per quello che ieri avrei risolto con una trasferta, oggi è rimasta l’imposizione delle mani, a distanza.
Il sollievo dei mesi estivi è svanito, i sei gradi di separazione si sono azzerati. Se prima non conoscevo nessuno neanche tra gli amici degli amici, adesso sento il fiato sul collo. Non smetto di dire che in tutto questo disastro, noi siamo quelli fortunati. Quelli che campano di smart working e digital transformation, quelli che il lavoro non gli è mai mancato, anzi, semmai aumentato, mentre c’è chi la cassa integrazione è un miraggio. Non smetto di dire neanche che mentre passavamo l’estate a drogarci di pillole di finta normalità, quelli che abitano la stanza dei bottoni avrebbero dovuto almeno provare a prevenirla ed arginarla questa seconda ondata, e invece si sono presentati all’esame di riparazione come l’ultimo degli scaldabanchi. Non me ne capacito.
Continuiamo ad assimilare parole insolite, dopo aver riesumato assembramenti e importato lockdown, è l’ora dell’infodemia. Ci adattiamo ai DPCM come camaleonti, quando la chiusura dei locali si sposta alle 18, l’aperitivo diventa merenda, quando si sopprimono le feste, qualcuno comincia ad organizzarle neanche tanto clandestinamente tramite Instagram, e chissà se il 1930 e gli altri speakeasy sono chiusi.
Io guardo Caccia a Ottobre Rosso in onore di Sean, cuocio castagne nel camino, faccio aperitivo con le M su uozzap e aspetto il prossimo DPCM. Me lo immagino più o meno così:
“Blurry” – Puddle Of Mudd
Questo è un post difficile da scrivere, ma non per la cifra tonda che mi pende in testa, quella neanche la considero. E’ difficile perché ci sono tante cose che vorrei raccontare, ma il tempo e la stanchezza e i pensieri che si aggrovigliano e si incastrano. Ho sempre lavorato tanto, ma fino a un anno fa ero responsabile solo di me stessa e del mio rendimento. Dover rispondere anche per altri che nemmeno puoi vedere, non è la stessa cosa. E il Covid non ha aiutato, sono passata dalle 9/10 ore con pausa pranzo da Woodstock a mettere le cuffie insieme agli slip e tenerle su anche per cucinare, sintonizzandomi su tre fusi orari diversi. A volte rispondo distrattamente in inglese anche a chi mi parla in italiano. Stanchezza mentale più che fisica, quella che impedisce di aprire un libro quando torno a casa o di scrivere qui dentro quanto vorrei. Lo strumento più tecnologico che uso di sera è la lavatrice.
Come ci si sente a cinquant’anni? L’ho già sentita diverse volte in questi giorni. Come ci si dovrebbe sentire? Boh, mo’ ci penso, dovrei rispondere. Fingere una riflessione profonda, lo sguardo concentrato in una messa a fuoco a 1.2, sopracciglia aggrottate e labbra col broncio, come se lo stessi facendo davvero. Raramente sorrido quando penso qualcosa, pure se è piacevole; sembra più che stia cercando di risolvere una complicata equazione logaritmica da cui dipendono le sorti del mondo, e io i logaritmi non li ho mai digeriti.
Non c’è bisogno di pensarci. Non so come dovrei sentirmi ma so che sto bene, e che se anche avessi una DeLorean parcheggiata qui sotto, non la userei per tornare a trent’anni fa. Magari una puntatina in tempi recenti, qualche sliding door per togliermi il dubbio del se avessi fatto in un altro modo, se avessi dato una risposta diversa.
A vent’anni ero un prototipo di me che iniziava a far bene da sola, ma si lasciava influenzare quando c’erano di mezzo altri. Fino ai quaranta ho preso molte decisioni sulla base di desideri non miei convinta che lo fossero, sbirciando le reazioni per capire se ero sulla strada giusta. Ci è voluto un po’ per capire quale fosse la mia, ma neanche qui userei la DeLorean per tornare a cambiare qualcosa.
L’ho già detto che tutto il passato serve a costruire, vero? Smussare, affilare, scartare, aggiungere, sottrarre, affondare, portare in superficie, ammorbidire, scolpire, scoprire. L’affinità si forma per differenza, due mezze mele si scivoleranno ineluttabilmente addosso, i pezzi di un puzzle tutti diversi formeranno un incastro perfetto. Ci ho messo un po’ a capire anche questo.
Al corso di reportage ho imparato che quello del Photo Editor è un mestiere difficile perché ti porta a sacrificare le immagini più belle se non sono utili a raccontare la tua storia.
La mia oggi è questa.
C’è un cancello un po’ arrugginito che fatica ad aprirsi, basta oliarlo un po’ e non farsi spaventare dalla roccia che si vede dietro
C’è la donna che finge di arrabbiarsi, che non ne sono mai stata capace e se faccio un po’ di training magari prima o poi imparo
C’è il barman di fiducia che puoi trovare aperto qualunque ora, se sai come bussare
C’è un leone e il fuoco, prossimamente su questa pelle. Il mio personale regalo di compleanno.
C’è l’Indiana Jones del barbecue che si intrippa a testare le ricette di bbq4all con la pinza nella destra e un’Ichnusa cruda nella sinistra, alla ricerca di un graal chiamato bisteccaperfetta e costinedimaialedaurlo
C’è la secchiona che legge istruzioni, composizione chimica e proprietà di tutte le marche di carbonella e combustibili in vendita al super, per perseguire l’obiettivo di cui sopra
C’è un surfer inside nato nel posto sbagliato, ma magari una decina di secondi su una tavola riuscirà a farli lo stesso, e una maschera con lo snorkel sempre in fondo alla borsa da mare
C’è una testuggine che dormendo ti punta la testa nelle costole fino a spingerti dall’altra parte del letto, per cercare un abbraccio fatto calore e tranquillità
C’è lo studente di scienze inutili che ricorda nozioni tipo il genere di cicale che escono dal terreno ogni 17 anni, e dimentica invece un tot di cose importanti. E non venitemi a dire che “se lo fossero davvero, le ricorderesti”. God save GoogleKeeps e i promemoria dell’iPhone
C’è una serial shopper che prende di mira Victoria’s Secrets e North Face. E la Troika di Fabriano.
C’è il nerd che passa ore in estrazioni, calcoli e vlookup delegabili ad altri, e s’appassiona all’uso di strumenti di marketing mai usati nell’IT
C’è la narcisista convinta d’essere un agglomerato di imperfezioni così perfetto che è impossibile non amarlo, e anche se la storia ha dimostrato che non è proprio così che funziona, lei insiste.
See you soon, magari prima dei cinquantuno
Seguo questo blog da tanto tempo, e ogni post, non solo questo, meriterebbe di essere letto e diffuso il più possibile.
Lei è una che ti prende in mano gli occhi e il cuore, e li fa rimbalzare oltre le porte degli ambulatori, del Pronto Soccorso, della rianimazione, e quando tornano indietro non sono più gli stessi.
Grazie e lei e a tutti gli altri che ogni giorno restano nel SSN con tenacia e passione, e dicono le cose come stanno invece di come vorremmo sentirle.
https://nessunodicelibera.wordpress.com/2020/02/26/quando-tutto-questo-sara-passato/
Mai avrei pensato nella vita di dover, ad un certo punto, affrontare un’emergenza epidemica come quella che si è abbattuta questa settimana in Italia, a causa di Coronavirus.
E’ stato tutto così rapido e concitato che ci vuole un attimo a fare il punto, pur sapendo che i conti veri, quelli epidemiologici e statistici, verranno fatti per bene solo alla fine, perché ci sarà una fine, e saranno sicuramente dati molto interessanti.
Noi addetti ai lavori sapevamo che stava per arrivare, eravamo all’erta da tempo, ma quello che, forse, non ci aspettavamo era l’effetto detonante che questo arrivo avrebbe provocato sulla popolazione.
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Non so come gli sia venuto in mente di scrivere qualcosa sulla California, ma quando me lo ha proposto non ci ho pensato neanche un attimo. Qui sotto il mio pezzo, qua il suo.
Merry Christmas, dear friend, ci si rivede tra qualche giorno.
Tu pensi che L’America sia grande, che gli Stati Uniti siano grandi, è inevitabile. E l’unico continente che conta due, e ogni fotografia pubblicata sulle riviste o sul web restituisce sensazioni di spazio, vastità o densità, tutte elevate a potenza. I rettilinei della Route 66, le pianure del South Dakota, i casinò di Las Vegas, i grattacieli di Manhattan, le formiche umane nella Subway. E anche gli americani che abitano le stanze dei bottoni, son lì per dimostrare al resto del mondo che loro ce l’hanno più grosso.
Poi una sera di fine estate arrivi sopra San Francisco e ti chiedi quasi dov’è. Una nebbia leggera ne avvolge le luci, come se non volesse farsi scoprire subito, e avvicinandoti t’accorgi che è più piccola di Milano. Passi la notte in un hotel dell’aeroporto, e al mattino sei a bordo del pick-up dell’Alamo affittato per dieci giorni. Oltre al volo, è l’unica certezza. Certo la T-Bird di Thelma & Louise sarebbe stata un’altra cosa, ma anche il pick-up ha il suo perché. Te lo immagini con due tavole Bear caricate nel cassone come fosse la vecchia Boonesmobile, e d’altra parte se sei qui è proprio per il surf. Per la locandina di Big Wednesday appesa sopra la scrivania, Point Break, Riding Giants e tutti gli Ocean Film Festival. Per La Filosofia del Surf, Giorni Selvaggi e La Pattuglia dell’Alba. Per i Beach Boys, gli Eagles e Jackson Browne. Per quella strada che si srotola sulla costa come una lunga onda dalle creste bianche, ora più alte, ora più basse.
Fate un salto a nord, che il Golden Gate e Alcatraz non puoi non vederli, e poi giù, lungo la Pacific Coast Highway. E’ nella wishlist da così tanto, e finalmente ci sei arrivata.
Spotify Connect, play.
Le miglia passano leggere, intervallate dagli stop lungo la strada.
Di sera i motel sulla costa col pick-up parcheggiato di fronte a una corta rampa di scale, le felpe, due Tequila Sunrise sul tavolinetto e i piedi sulla balaustra ad aspettare un tramonto dello stesso colore del liquido nei bicchieri.
Di giorno le spiagge, il sole, i tuffi nell’oceano, i costumi Maui e le gelide bottiglie di Bud seduti nella sabbia. I bagnini di Zuma sono gli stessi di Baywatch, Venice Beach è un flashback negli anni ’90, bellezze bionde sui rollerblade comprese. Il Big Sur è tanta roba, la Pfeiffer State Beach un gioiello incastonato tra le rocce. Accostate il pick-up sul bordo di una scarpata e ti tremano un po’ le gambe quando t’affacci sul ciglio.
Miglio dopo miglio la striscia blu alla tua destra è una presenza costante, non smetti di fissarla dal finestrino del passeggero. Sei nata di verde e di terra, ma il mare ce l’hai dentro da sempre. Ora lo respiri, lo senti addosso. La pelle che cambia sapore, una leggera patina salata la ricopre, la assaggi nella piega del gomito. A Huntington Beach cominci a vederli, dalla spiaggia e dal Pier. The Wedge è lo spot dei bodysurfers, quelli son davvero dei pazzi scatenati. Prosegui ancora verso sud, Laguna Beach, Dana Point, Trestles. Sul molo di San Diego intravedi Frankie Machine, non può essere lui ma ti piace immaginarlo. Prosegui oltre e li guardi ancora cavalcare le onde, li indovini dentro i tube, li cerchi all’uscita con lo zoom trattenendo il respiro.
Li guardi e pensi a Finnegan, Le onde sono il campo da gioco, il fine ultimo. Pensi a tutti i what if… della tua vita che non sono mai stati e che non potranno mai essere. Pensi a Leonardo Fioravanti, che i suoi what if li ha frantumati con la tavola imparando a surfare sulle quattro onde che il traghetto Olbia-Civitavecchia produce poco prima di entrare in porto alle sette del mattino. Forse ci sarà anche lui a Tokyo, alla prima olimpiade di questo sport da alieni. Pensi che in fondo nella filosofia del surf ti ci ritrovi, il momento importante non è ma ieri o domani, è sempre qui e adesso. E qui e adesso funziona.
Io in California non ci sono mai stata, dunque neanche le fotografie le ho scattate lì, ma è così che lo immagino il mio viaggio sulla PCH.
[Qualche settimana fa ho chiesto a due amici, Monia e Michele, entrambi che fotografono in modo interessante e originale, scrivono con uno stile che mi piace e intriga, e raccontano pezzi della loro vita in modo onesto e diretto, ho chiesto loro – dicevo – di pubblicare un loro post basato su una canzone: mi pare ne sia uscita una bella triplice 3-M esperienza, un brodo-wordpress che riflette le nostre vite, le nostre poetiche e le foto che spesso scattiamo solo con gli occhi …]
La radio trasmette scariche elettrostatiche, intervallate da brevissimi brani di canzoni inascoltabili, e da proclami di pura ortodossia lanciati da Radio Maria, unica stazione sulla quale questo cazzo di apparecchio a galena si continui a risintonizzare.
Nei pochi secondi in cui la musica emerge quasi indecisa e perturbata, il rumore di motore, telaio e meccanismi assortiti del vecchio Defender 2003 TD5, ne copre…
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