Di oceani, iceberg, vela e ancora surf

Di oceani, iceberg, vela e ancora surf

Sono andata all’Ocean Film Festival, e anche quest’anno ci sono rimasta letteralmente sotto. Tanto underwater da far decompressione ma anche tanto altro. Quando c’è qualcosa che vorrei raccontare subito le parole s’ammucchiano come il pubblico di un concerto allo stadio, i primi ad alzarsi sono pochi, ma poi spingono, sgomitano e cercano di uscire tutti insieme.

E’ un sovrapporsi di robe diverse, orgoglio mischiato ai ricordi ed alla consapevolezza d’esser lucky woman ad aver nuotato tra i delfini e visto coi miei occhi barriere coralline, pesci pietra, squali martello, aquile di mare, relitti colonizzati e nuvole di pesci colorati, ma altrettanta consapevolezza che dalla mia wishlist non spunto niente da un po’ e la dovrei rivedere perché alcune righe sono da cambiare e altre da rafforzare. Negli ultimi tre anni ho avuto a che fare più con gli spigoli della realtà che con il morbido dei sogni, ma loro sono lì e non me li può portar via nessuno.

La prima volta che ho visto degli iceberg (e neanche tanto grandi) sono rimasta lì come un bambino al luna park che non sa decidere su quale gioco salire: la macchina fotografica tra mani e gli occhi che schizzavano da uno all’altro. Il ghiaccio è vivo, cresce, solidifica, si spacca, si muove, si scioglie e non è mai uguale a se stesso. Il ghiaccio è trasparente, è bianco accecante, nero, grigio, blu, turchese e tutti i colori insieme. Ho camminato su ghiaccio vecchio di secoli, ho guardato gli iceberg staccarsi dal ghiacciato e navigare lentamente nella laguna, ho toccato con le dita quelli arenati sulla spiaggia e ci ho guardato dentro con gli occhi e con le lenti, ma posso solo immaginare come può essere arrivare con una piccola barca a vela autocostruita lì dove si staccò quello del Titanic. Le dimensioni contano, e nella Disko Bay oceano, ghiaccio e silenzio si moltiplicano all’infinito.

Poi le onde, lo scorso anno una monografia sul primo surfista islandese, uno che sale sulla tavola anche con parecchi gradi sotto lo zero, ieri una Band of Brothers, fratelli di onde a caccia di Big Waves. Respect.

The thing about big-wave surfing is that it’s not like you climb Everest and say, ‘That’s me done’. There’s lots more Everests to climb; with surfing you have no idea when the bigger wave will come. I’m searching for the biggest wave, and that search is never ending.

Quando ho iniziato a frequentare la montagna ho pensato fosse molto simile al mare per le difficoltà da superare, ma no. Sulla terraferma le montagne più alte sono già state tutte scalate, in mare non sai mai quando arriverà un Everest più alto del precedente.

Fortitude

Fortitude

Complici la pioggia insistente e il wifi dei vicini, ho passato buona parte del weekend tappata in casa. Erano anni che non restavo una giornata a letto scendendo solo per necessità fisiologiche, l’ultima volta avevo trentanove di febbre e una sospetta polmonite. Cazzeggiando nel web sono arrivata alla pagina di una serie che mi ha incuriosito. Ho inizio a guardare e divorato le prime dodici puntate, della seconda parte ne sono ne uscite ancora solo due e già sto sulle spine per il seguito.

Fortitude è una piccola comunità delle Svalbard con più orsi polari che uomini, tanto che si è obbligati a girare col fucile a spalla. Immersa nella natura, con in corso un progetto per la costruzione di un hotel di ghiaccio per risollevarne l’economia all’esaurimento delle miniere. A Fortitude non nasce nessuno, e sono due le regole per poterci vivere: un tetto sulla testa e un lavoro per mantenersi (dunque non c’è delinquenza e non sono mai stati registrati crimini). E a Fortitude soprattutto non è permesso morire, perché il permafrost è come un gigantesco freezer che conserva tutto per millenni, compresi virus, batteri e un mammut che sembra essere l’origine di una serie di omicidi. La polizia, che mai ha avuto a che fare con un crimine, si trova il campo invaso da un detective arrivato da Londra per collaborare alle indagini. La comunità si scoprirà essere tutto tranne che tranquilla, ognuna delle persone che ha scelto di vivere in quel posto ha poco da perdere oppure tanto da nascondere e dimenticare.
Tra gli attori, il detective inglese è Stanley Tucci, lo Sceriffo è Beric Dondarrion del Trono di Spade, il fotografo Henry Tyson che apre la prima puntata è l’Albus Silente degli ultimi Harry Potter. Nella seconda serie, che sembra iniziare sganciata dalla prima, molti spariscono, qualcuno rimane, fuori Tucci, dentro Dennis Quaid.

Ciò che mi ha conquistata è l’ambientazione: la neve costantemente presente che sa nascondere e allo stesso tempo rivelare, i colori desaturati, il freddo intenso che è li ma sembra andare oltre i confini dello schermo, il vento che senti quasi fischiare nelle orecchie, e il ghiaccio di quella stessa laguna in cui tre anni fa ho passato due giorni meravigliosi tra gli iceberg (la serie è ambientata alle Svalbard ma girata in Islanda). Il freddo e la solitudine di quel posto fuori dal mondo, come tutte le condizioni estreme, distillano le anime e i rapporti che le legano eliminando il superfluo per conservare solo l’essenziale: la forza, le debolezze, le paure, le malvagità. Un po’ meno essenziale l’uso di sangue e budella sparse spesso in primo piano, ma rientra nel genere.

Guardatevi il trailer, e se vi piace, anche tutto il resto. La trama e la sceneggiatura qualche magagna ce l’hanno, ma vale il tempo speso per vederlo, se amate i ghiacci quanto me.

Quanto alle fotografie, le ho scattate io in alcuni dei luoghi in cui è stata girata la serie… Non è il posto più bello del mondo?
Ci tornerò, e la prossima volta sarà d’inverno.