Poche cose mi toccano quanto la questione dell’acciaio. Ci ho messo un po’ a digerire il tuo ultimo post e avevo iniziato a commentare sotto, ma le righe s’allungavano e allora è finito qui, anche se non son certo capace di scrivere nello stesso modo.

Un post che è un flashback. Taranto e Terni, due città intrise di questa lega ferro-carbonio fino alle ossa. Di tutta la popolazione, perché non c’è nessuno che non abbia un padre, un figlio o un fratello nello stabilimento o in una delle controllate.

Quando nel ’94 il governo Prodi ha privatizzato le Acciaierie io ero già dentro, mio padre prima di me per trentacinque anni. C’ero quando l’accordo garantito da Schröder e Berlusconi finì nel cesso e l’intero reparto del magnetico fu chiuso.
C’ero quando il getto d’olio bollente uccise sette colleghi a Torino, nello stabilimento già destinato alla chiusura. Del processo che seguì, parliamone.
C’ero quando la fabbrica è stata acquistata dai finlandesi, obbligati poi un attimo dopo a rivenderla dalla commissione antitrust europea.
Ci sono stata ogni volta che un accordo siglato per il mantenimento delle quote produttive è stato disatteso e trasformato in una riduzione del 50%. Con la logica riduzione del personale.

Nella foto qui sotto c’è il riflesso della torre del BA, l’impianto di finitura che produce quei meravigliosi rotoli a specchio universalmente conosciuti sotto forma di cestelli di lavatrici o posate Alessi. L’ho scattata nel piazzale interno, quello che di solito accoglie TIR e treni, quello in cui ci si ritrovava per gli scioperi e le brutte notizie. Era il 9 ottobre del 2014, il giorno in cui ho capito che il mio lavoro era andato a puttane, che la mia vita 1.0 si stava frantumando come l’asfalto che calpestavo.

Poco dopo mi sarei ritrovata a Roma a prender manganellate dalla polizia, a bloccare stazioni ferroviarie e caselli autostradali a piedi, poi ancora a Bruxelles per cercare di difendere l’indifendibile, era tutto già deciso. Nessuno ha ascoltato le nostre ragioni, o forse si, ma nel bilancio dell’economia europea e mondiale sono altre le forze che contano. Tre mesi di sciopero, quattrocento dimissioni “volontarie“. A costo zero le mie, che ho provato a resistere fino all’ultimo.

Leggo e continuo a trovare similitudini. Ci vuole un Nobel in economia per intuire che se vendi una fabbrica a un competitor straniero, al primo problema chi ci rimette è la tua terra? Che il sindacato tedesco è unitario e più forte, e un operaio di Bochum vale il sacrificio di 600 nostri? Che gli accordi scritti valgono quanto la carta straccia? Che le ragioni della concorrenza non hanno niente di umano ed è più conveniente sfruttare indiani senza protezione che investire sul risanamento ambientale di un sito italiano? Che ai più giovani non gli puoi offrire una casa e un futuro a rate di contratti interinali? E il particolare che l’AD di Arcelor Mittal Italia di oggi sia lo stesso delle dimissioni volontarie di cui sopra non è trascurabile.

Abbiamo una galleria che qualcuno ha pensato di far passare esattamente sotto la discarica dell’acciaieria, e ora che le infiltrazioni fanno scendere acque contaminate sulle auto in transito, il problema è discutere sulla percentuale di pericolosità del cromo esavalente e sui danni economici della chiusura per lavori, invece che affrettarsi a rifare l’impermeabilizzazione.

L’incidenza dei tumori è ugualmente ben oltre la media, e colpisce sempre più presto. Mi ha toccata personalmente e profondamente. Mio padre non ha avuto il tempo di vedere la mia vita 2.0, per il suo tumore al fegato sono bastati sei mesi. La mia migliore amica è uscita bene da uno all’utero, ma grazie alle cure ricevute in un’altra regione. Terni non è famosa per la qualità della medicina pubblica e neanche per la rapidità dei servizi: devi avere qualche soldo da parte per poterti permettere cure private o in un’altra regione, altrimenti hai un problema. A volte non risolvibile.

Leggo e penso che il passato non ha insegnato niente. Una serie di flashback tutti uguali a se stessi. Chiunque ci sia in alto, qualunque sia la fabbrica, gli errori son sempre gli stessi. Come le vittime.

La mia fuga non è stata una resa, me ne sono andata con le armi in pugno per non lasciar vincere loro contro di me. Fuga per la vittoria ma anche fuga per la sopravvivenza. Qualcun altro si è adattato, io non ci sono riuscita. Non so quanto ci sia di onorevole in questo, però so che l’acciaio si tempra e ti tempra. E’ questo che contraddistingue chi d’acciaio ci vive.

“Una guerra fredda” – Le Luci della Centrale Elettrica

13 pensieri su “Flashback (Da Taranto a Terni, 9 Ottobre 2014)

  1. Provo ammirazione per il tuo agire in una storia collettiva che conoscevo solo in parte, e nel contempo amarezza perchè tu, come molti, hai dovuto abbandonare e cercare un’altra strada (che hai trovato solo grazie a te).
    Noi tutti, come persone, come cittadini, come lavoratori, non siamo più rappresentati da nessuno: l’esplosione della rabbia non può non essere comprensibile.

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    1. Nel mio caso, un problema così grande è diventato una opportunità che mai avrei pensato di poter avere, e ancora di più, di trasformare in una realtà che va oltre ogni aspettativa. Ma io sono una eccezione e la storia si scrive coi grandi numeri. E anche io non mi sento più rappresentata da nessuno. Quando sei da solo nella cabina elettorale è ormai diventato difficile anche scegliere il meno peggio. Non è così che dovrebbe funzionare.

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  2. Post che mette in luce la disgrazia di ciò che siamo diventati ! Un paese allo sbando senza un’anima ma solo milioni di anime vere che cercano in qualche modo di arrangiarsi. Anch’io ne vengo da una multinazionale che mi ha dato un calcio nel sedere dopo aver acquisito la vecchia azienda. Anch’io come te mi sono fatto tutti i cortei, tutte le proteste, tutto di tutto ma alla fine ho dovuto firmare e chi non lo ha fatto ha ricevuto una raccomandata !

    Ho perso da tempo la speranza in un paese ripiegato su se stesso, privo di luce, voglia di combattere e credo che il futuro sarà ancora peggio.

    … Ora ci sono le sardine … Ma si disperderanno come al solito in un nulla di fatto !

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  3. Come ho scritto da vag, con un post così non posso aggiungere nulla che tu non abbia detto, solo tristemente annuire sulla veridicità di quello che dici… e sperare, sperare che dove non siamo riusciti noi “adulti” riescano le next generation, supportarli mentre cercano di cambiare il tempo che vivono, trasformandolo nel posto dove gli esseri umani sono prima degli interessi economici

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  4. A volte la vita 2.0 è possibile intraprenderla, a volte non si può…
    Io continuo a vedere la storia che tu hai lasciato ed è una storia via via sempre più triste ed umiliante.
    Ma la storia siamo noi, un popolo senza orgoglio e senza dignità, pronto a saltare sul carro del vincitore, paladino dello “speriamo che me la cavo”, che è pronto a credere alle favole invece di rimboccarsi le maniche, che 1.000.000 di “sardine” non bastano a riscattarne la mediocrità e l’opportunismo…
    Non c’entrano i tedeschi, non c’entrano gli indiani e non c’entra nemmeno l’Europa matrigna o le ONG che permettono l’invasione del belpaese (!!!)…
    Siamo solo noi che siamo pronti ad omaggiare il nuovo Principe, con una memoria che nemmeno i pesciolini rossi hanno inferiore…
    Non abbiamo più una industria italiana, abbiamo venduto anche le mutande per trovare una scorciatoia, invece di ripensare a serie politiche economiche, pronti a sacrificare tutto per un like, per un 1% in più nei sondaggi.
    Terni, Taranto, ma anche Alitalia, TAV, Salerno-Reggio Calabria, Mose e terremotati ancora all’addiaccio…
    Siamo quello che ci meritiamo, cioè il nulla del pensiero unico.

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    1. E’ vero che non tutti possono permettersi la relocation che ho fatto io, ma è anche vero che restando, la mia vita sarebbe comunque diventata un 2.0, ma di un tipo che non sono riuscita ad accettare.
      Poi posso essere d’accordo su una serie di “non c’entrano…”, ma rivedere a Taranto lo stesso AD che abbiamo sperimentato sulla nostra pelle non promette niente di buono.

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  5. conosco la realtà ternana, so quante morti ci sono tra i residenti in quell’area. tutte morti fulminanti, tutte morti brutte per un male bruttissimo.
    e la rabbia, certo, cresce come un moloch. e non aiutano certe quelle merde liberiste a sentirsi meglio, loro e quelle politiche inumane che strozzano l’umano, che realizzano solo vuoti profitti da numeri stellari che si srotolano in continuum non raggiungibili dalle nostre cognizioni – e nemmeno da quelle degli economisti, businnesman e leader di qualsiasi natura.

    la rabbia è tanta, non basta una vita per farla defluire via…

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  6. Per quello che vale la mia impressione in quanto tra i primi ( forse primo ? ) di Aspasiel a firmare quelle dimissioni volontarie e anche ( mio malgrado ) RSU , c’è stato un momento preciso in quei mesi di Novembre/Dicembre 2014 in cui presi la decisione.
    Forse era davanti al MISE, forse in un consiglio di fabbrica … ma a un certo punto mi è sembrato tutto una farsa, e noi attori che recitavamo un copione con il finale ineluttabile; tra gli attori consapevoli del copione c’erano i piani più alti dei sindacati.
    Non intendo colpevolizzare nessuno per questo : le cose vanno così e tutti, più o meno consapevoli, recitiamo le nostre parti nella vita; ma a volte mi rattrista che per quanto nefande siano queste parti si trovi sempre qualcuno disposto a recitarle.

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    1. Sei stato il primo, me lo ricordo bene, e a quel tempo ho pensato che avessi tutto il coraggio che io non riuscivo a trovare. Guardando indietro, a volte mi viene da pensare che forse non era tutto così perduto, ma è solo il filtro del tempo che ammorbidisce gli spigoli e le parti più brutte di quel periodo. Poi ripensandoci bene, parlando con chi è restato e con chi come te era anche su altri tavoli, torno a credere che davvero non c’erano alternative, non per un mestiere come il nostro, non se lo fai prima di tutto per il piacere di farlo. E hai ragione anche sul fatto che c’è stato e ci sarà sempre un inevitabile gioco della parti in cui a rimetterci sono sempre le stesse persone. Grazie Paolo.

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